ROMA
- Quasi due mesi nelle mani dei rapitori e oltre tre ore a raccontare
ai magistrati romani i particolari di quei 56 giorni trascorsi
soffrendo la fame e dormendo per terra. E un' indicazione importante,
su cui si svilupperanno le prossime indagini: tra i carcerieri
uno parlava uno stentato italiano.
Salvatore, Maurizio e Umberto hanno dovuto correre a rispondere
alle domande dei Pm romani Ionta, Saviotti e Amelio
titolari dell' inchiesta sul sequestro e l' omicidio di Fabrizio
Quattrocchi.
Sono
tante le domande cui i tre hanno dovuto rispondere in oltre
tre ore di faccia a faccia con gli inquirenti romani, che li
hanno ascoltati separatamente per chiarire le circostanze della
loro presenza in Iraq, del sequestro, della prigionia e del
blitz che li ha liberati.
L'
ipotesi della presenza di italiani nel gruppo di rapitori, che
era circolata insistentemente dopo l'ultimo video dei tre ostaggi
diffuso dai terroristi, e' stata decisamente smentita dai tre.
Che pero' hanno aggiunto: ''C' era solo uno di loro che parlava
uno stentato italiano''.
I
sequestratori erano molti, sicuramente piu' di dieci: ''Di
alcuni di loro abbiamo visto le facce'', i magistrati stanno
provando a tracciare un identikit, e chiarire anche il giorno
esatto del loro rilascio.
I
tre ostaggi hanno raccontato di essere rimasti completamente
all' oscuro della morte di Quattrocchi, di cui sono stati informati
solo ieri, appena tornati in liberta': ''Quando abbiamo chiesto
dov' era Fabrizio, i nostri rapitori ci hanno risposto che lo
avevano liberato'', hanno riferito ai magistrati romani
specificando di non aver sentito nulla che potesse insospettirli
sulla fine del loro compagno. Le loro dichiarazioni hanno indotto
gli inquirenti a ritenere che Quattrocchi sia stato portato
in una prigione differente da quella degli altri tre e quindi
giustiziato in un luogo diverso. La versione non convince pienamente
il fratello di Quattrocchi, Davide.
''Ci
occupavamo di vigilanza'', hanno detto i tre italiani ai magistrati,
spiegando la ragione della loro presenza in Iraq. ''Il nostro
era un lavoro per una societa' americana che ci aveva contattato
attraverso un' altra societa' estera''. I tre erano arrivati
in Iraq da poco - hanno riferito ambienti vicini agli inquirenti
- e non avevano avuto ancora modo di stringere contatti con alcuno.
''Siamo stati trattati semplicemente come dei sequestrati.
Abbiamo sofferto la fame, ma non ci hanno picchiato''.