FINE SETTIMANA
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CINEMA

Il mio nome è Sean "Che dolore scrivere di me"
"Le donne mi hanno sempre attratto, le amo. Forse loro mi amano per proteggermi in vecchiaia. Bond mi fa simpatia"



MARRAKECH - Il tappeto rosso, il ritmo esaltato delle percussioni, il canto stridulo e inquietante delle donne berbere nei costumi sontuosi di colori e di gioielli, una folla di fotografi: l'ingresso di sir Sean Connery nel Palazzo dei Congressi di Marrakech è trionfale. All'interno, nel grande teatro, il pubblico lo accoglie con una standing ovation e un lungo, caloroso applauso, che sir Sean accetta commosso. È l'ospite d'onore della quarta edizione del festival di Marrakech, che lo premia con un riconoscimento alla carriera. Glielo consegna Laurence Fishburne con parole solenni: "Come i re e gli avventurieri che ha interpretato sullo schermo, è un uomo che non riposa sugli allori, ma cerca continuamente nuove conquiste".

Sean Connery - è lui a chiedere di mettere da parte il titolo, che lo onora ma lo imbarazza visto che "proviene dagli inglesi, che riconoscono i valori individuali e soffocano la libertà della Scozia" - accetta i doveri dell'ufficialità ma è più a suo agio negli incontri informali. Il fisico appesantito dal tempo - classe 1930 - non cancella l'eleganza, la classe, i segni di un fascino che ancora lo fanno inserire nelle classifiche degli uomini più seducenti del mondo. Lui ne ride: "Le donne mi hanno sempre attratto, le amo. Forse loro mi amano per proteggermi in vecchiaia".
È rilassato e disponibile "perché per me il Marocco è una festa continua, la dolcezza delle persone mi mettono allegria". E c'è un'altra motivazione: "Sono stato qui la prima volta nel ?70 per la settimana internazionale del golf. Un'occasione memorabile: ho conosciuto mia moglie Micheline e ho vinto la coppa del re del Marocco. E qui ho girato due film che amo, L'uomo che volle farsi re di John Huston e Banditi del tempo dei Monty Python".

Dopo l' ultimo film, La lega degli uomini straordinari, secondo "Variety" Connery avrebbe dato l'addio al cinema. "Non è così, è che ora sono preso da altre cose. Partecipo alla preparazione della storia della Scozia in 14 volumi, di cui faremo una riduzione per una serie tv, e sto scrivendo un'autobiografia. Dicevo che non l'avrei mai fatto e adesso capisco perché, è l'esperienza più dolorosa della mia vita, se pure terapeutica. Ma continuo ad amare il cinema, aspetto una di quelle offerte che non si possono rifiutare".

Perché ha deciso di scrivere l'autobiografia?
"Il mio avvocato. Ho visto che ci sono dieci libri su di me, pieni di inesattezze e anche di calunnie e ho pensato che dovevo chiedere le rettifiche. "Dovrei fare dieci denunce", mi ha detto l'avvocato, "ti costerei troppo. Meglio se tu scrivi la verità su te stesso". È un lavoro enorme, io non conservo nulla del passato, ho un animo da zingaro, amo spostarmi senza bagagli pesanti, perciò mi costringo a una lunga indagine nella memoria e trovo cose che non vorrei ricordare".

Per esempio?
"Volti, parole di persone uscite dalla mia vita alle quali non ho dimostrato l'amore che provavo. Errori, stupidamente ripetuti, incapace di imparare dall'esperienza. Per la prima volta conosco me stesso, mi rendo conto che ho dedicato il mio tempo ad approfondire i personaggi più che a capire com'ero io. Come se avessi vissuto in una nuvola di distrazione. Mi sono tornate in mente molte cose dell'infanzia, ero un bambino che moriva dalla voglia di andare in guerra, poi solo nel ?47, a guerra finita, sono entrato in Marina. E ho scoperto il mondo solo uscendo dalla Scozia".

Il cinema quando è arrivato?
"Da ragazzino non ci pensavo, mi appassionava il calcio, giocavo sempre, detestavo la scuola, mi piaceva di più consegnare il latte per guadagnare qualcosa, in casa lavorava solo mia madre. Poi ho fatto i soliti mille mestieri, finché non sono entrato in un teatro e ho deciso di provarci. Il cinema è arrivato dopo, con Bond".

Cosa le è rimasto del personaggio?
"Lo ricordo con simpatia, ma non con nostalgia, ora potrei farlo su una sedia a rotelle. Mi mortifica l'idea di essere ricordato solo per Bond, ho fatto oltre quaranta film, spero di aver dimostrato qualcosa di più della licenza di uccidere".

I media si esercitano spesso nella ricerca dei suoi "eredi"?
"Non mi appassiona, penso che un buon attore abbia una sua specificità, sia unico. Ci sono attori che mi piacciono, alcuni mi ricordano me giovane, la stessa passione e curiosità, come Ewan McGregor o Colin Farrell, ma non li considero eredi".

Farrell è protagonista di Alexander, presentato qui in anteprima. Che ne pensa?
"Per Colin è il grande lancio e sono contento, Colin è irlandese, gli irlandesi hanno parecchio in comune con gli scozzesi, anche loro massacrati dagli inglesi. Mi era stato offerto il ruolo di Filippo, il re con un occhio solo, ho rifiutato per una serie di ragioni, Val Kilmer lo fa bene. Ma ho capito perché il film non va con gli americani, che non hanno il senso della storia e del passato di noi europei. Alexander ha lo stesso destino di Il nome della rosa, un successo ovunque meno che negli Usa. L'americano medio si perde nelle sofisticazioni del Medio Evo come tra le divinità della civiltà greca, ha bisogno di battute chiare, essenziali come nei fumetti".

Secondo lei il cinema può avere una funzione didattica?
"Dovrebbe, il cinema dei paesi emarginati ci aiuta a conoscere realtà che la tv non racconta. I film storici dovrebbero insegnare a non ripetere gli errori del passato, ma non succede. Altrimenti il mondo non sarebbe governato da tanti idioti".

Lei ha incontrato molti leader importanti. Che ricordo ha di Arafat e Shimon Peres?
"Li ho incontrati tre anni fa a Roma, ero lì per una partita del cuore. Loro non rientrano tra gli idioti, mi hanno impressionato entrambi, due universi opposti. Peres pacato, calmo, con un seguito discreto, Arafat protetto da guardie del corpo armate, irrequiete. Mi ha affascinato la forza e l'intelligenza di Arafat, un grande uomo, ma un guerriero. Capisco che la pace con lui non sia stata possibile, per uno che tutta la vita è stato rivoluzionario e guerriero la cultura della pace è difficile da accettare. Oggi ci sono più speranze per risolvere i problemi di quella parte del mondo. Ed è una speranza per tutti noi, le tragedie di oggi nascono da lì".

 

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