L’Impregilo
apre la strada verso il nuovo Eldorado della Colombia
Da
quasi quattro anni il colosso nazionale delle costruzioni è
impegnato in Colombia nella realizzazione di una infrastruttura
viaria i cui effetti sul territorio, sull’ambiente e sulle
popolazioni si fanno giorno dopo giorno sempre più devastanti.
‘Connessione
viaria Valle d’Aburrá – Río Cauca’
è il nome della megaopera; l’asse centrale è
rappresentato da un tunnel di 4,6 km (il ‘Túnel
de Occidente’), scavato sotto l’Alto de Boquerón,
una montagna che divide la città di Medellín dai
municipi di San Jeronimo e Santa Fé de Antioquia: una
delle regioni più violente dell’America Latina,
dove il cinquantennale conflitto politico tra gli attori armati
si somma alla violenza urbana e alle lotte per la supremazia
del territorio del narcotraffico.
Un
contratto per oltre 140 miliardi di pesos sottoscritto con il
consorzio italo-colombiano Impregilo-Topco (oggi Minciviles
S.A.), fermamente voluto dalle classi dirigenti locali e che
esula dalla pianificazione di una qualsiasi politica dei trasporti
della regione e di uno sviluppo sostenibile del territorio.
Complessivamente un progetto viario lungo 37,8 km che riduce
la distanza tra Medellín e Santa Fé dai 74 km
attuali a 52 km., in una zona ricchissima di fonti idriche,
tra cui la conca che alimenta i torrenti e gli affluenti dei
fiumi Medellín e Cauca. Un’opera che divora risorse
finanziarie e ambientali ed accresce l’indebitamento estero,
senza offrire risposte concrete in termini di occupazione e
riordino urbanistico in un’area metropolitana con il più
alto tasso di disoccupazione e lavoro informale della Colombia.
Una
rete viaria moderna che riduca i tempi di percorrenza verso
l’Oceano Atlantico è senza dubbio il presupposto
per integrare alcune delle zone più emarginate dell’emisfero.
Ciò che è in discussione è se il progetto
in via di realizzazione da parte dell’Impregilo risponda
realmente a questa finalità e se esiste un rapporto positivo
costi-benefici. Ci si domanda se non potevano essere implementate
alternative dal minore impatto socioambientale e soprattutto
meno dispendiose. Queste alternative esistevano ma non sono
state valutate. Gli interessi in gioco in Antioquia, di tipo
economico, politico, strategico, militare sono predominanti
ed escludenti.
Frane
di colline, crolli di abitazioni, disboscamento e mutazioni
dei regimi delle acque. Sfruttamento intensivo della manodopera,
violazioni delle norme contrattuali e drastici tagli ai salari.
Espulsioni e riubicazioni forzate della popolazione. Marginalizzazione
delle periferie. Monopolio della forza dei gruppi paramilitari
di estrema destra. Sono queste alcune delle conseguenze dirette
ed indirette dell’infrastruttura viaria che una delle roccaforti
del capitalismo ‘made in Italy’ sta realizzando in
Colombia. Un investimento finalizzato alla penetrazione in un
mercato che promette altre commesse più redditizie, altre
infrastrutture ancora più devastanti e dal violento impatto
sociale.
Il
‘Tunnel d’Occidente’ è questo: lo strumento
d’intervento di un capitalismo selvaggio, senza scrupoli,
dilapidatore delle risorse umane e ambientali; la porta verso
il nuovo Eldorado del XXI secolo, la regione nordoccidentale
di Antioquia sino al Canale di Panama e le coste dei due Oceani
che si sfiorano nell’Urabá. Un patrimonio di biodiversità,
di risorse idriche, forestali e minerarie su cui è stato
avviato l’ennesimo saccheggio post-coloniale. Impregilo
ne traccia il sentiero e si lancia nella competizione internazionale
per presenziare e gestirne le tappe successive.
I
lavori per il tunnel, storia di una tragedia annunciata
Per
comprendere gli effetti disatrosi sull’ambiente e il territorio
dei primi lavori di sbancamento e realizzazione dell’infrastruttura
viaria è sufficiente un sopralluogo alla ‘Vereda
Mestizal’, municipio di San Jeronimo, un abitato che sorge
a monte dell’ingresso occidentale del tunnel ‘Impregilo’.
Qui il paesaggio appare irrimediabilmente devastato; le sempre
più frequenti frane al pendio della montagna hanno tirato
a valle alcune abitazioni, un asilo nido e le coltivazioni di
ortaggi e frutta che i coloni avevano realizzato per il loro
sostentamento. Gli smottamenti hanno cancellato buona parte
della vecchia strada coloniale che congiungeva Mestizal a San
Jeronimo, isolando la frazione e costringendo gli abitanti ad
un lungo e tortuoso giro per le montagne prima di giungere nel
municipio. La linea di frattura del terreno si sta progressivamente
spostando verso la cima della montagna; in alcuni punti il dislivello
ha superato il metro, le crepe si sono trasformate in voragini
e nulla sembra sfuggire alla forza attrattiva verso il precipizio,
profondo un centinaio di metri.
Le
abitazioni che non sono state devastate dai crolli appaiono
ferite, mutilate: innumerevoli fratture le hanno sezionate longitudinalmente
e trasversalmente, i pavimenti e i soffitti si sono aperti.
Le famiglie che le hanno abitate sino a qualche mese fa si sono
trasferite a San Jeronimo, chiedendo ospitalità a parenti
o amici o prendendo in affitto una stanza che presto dovranno
lasciare perché i soldi sono finiti. Chi ha potuto, ha
recuperato gli assi di legno che rivestivano i tetti per allestire
una baracca provvisoria. Di fronte agli scheletri degli edifici
perduti, uomini e donne vegliano ciò che resta dei sacrifici
di tutta una vita, il luogo dove si è nati e dove sono
nati i propri figli, con l’ingenua speranza che un miracolo
possa arrestare i tremori e l’erosione della terra.
L’intensità
dei danni decresce via via che si risale verso l’alto.
Tuttavia non c’è caseggiato della ‘vereda’
che non mostri le gravi modificazioni strutturali: crepe ai
muri e al soffitto, smottamenti degli orti, lesioni e avvallamenti
di superfici e pavimenti. I segni indelebili di una tragedia
annunciata: in pochi mesi, le nuove piogge si trascineranno
altra terra a valle e anche queste case dovranno essere abbandonate.
Critica
appare la situazione nelle abitazioni che ospitano gli ‘hogar’
delle madri comunitarie, gli asili nido dei poveri. Uno di essi,
‘Las Brisas’, è già crollato: i 15 bambini
che vi erano ospitati sono stati trasferiti più su in
una baracca di legno, sormontata da un telone di plastica che
a fatica protegge dalle piogge. La struttura era già
stata considerata inidonea ad ospitare una stalla. Lì,
in pochi metri quadrati, continuano a vivere, mangiare, giocare
più di una trentina di bambini, perché intanto
si è dovuto provvedere a risistemare un altro ‘hogar’
a rischio di crollo. Un po’ meglio vivono i bambini di
un terzo asilo, ‘Los gemelos’. Per lo meno si è
di fronte ad una costruzione di mattoni. Tuttavia, quelle che
gli abitanti ormai chiamano ‘le lunghe vibrazioni della
terra’ ne hanno scosso le fondamenta e le prime crepe hanno
lacerato gli intonaci. Nell’unico bagno esistente, le tubature
sono state distrutte dalla pressione esercitata dal terreno.
Quando
meno di sei mesi fa gli abitanti di Mestizal iniziarono ad avvertire
i primi cigolii del tetto, si credette che erano gli effetti
degli assestamenti alle vibrazioni causate dal transito degli
automezzi delle imprese costruttrici del tunnel. Poi, ai rumori
sono seguite le crepe, alle crepe gli smottamenti e infine la
devastante frana che ha divorato metà della montagna
e i cui detriti investono le acque del Rìo Sucio, quasi
un chilometro a valle. I blocchi di pietra precipitati stanno
modificando pericolosamente il flusso delle acque di questo
affluente di uno dei maggiori fiumi della Colombia, il Cauca,
che scorre seguendo i rilievi delle Cordigliere.
Oggi
nessuno crede più alla storia delle vibrazioni causate
dagli automezzi pesanti. La collina frana perché ne sono
stati rotti gli equilibri geologici con i lavori di sbancamento
del tunnel dell’Alto de Boquerón, per cui sono state
fatte esplodere 450 tonnellate di dinamite, e di realizzazione
della strada di collegamento, una decina di chilometri di tornanti
e ponti che tagliano colline e torrenti, cancellando aree boschive,
campi coltivati e corsi d’acqua. Invece di eseguire dei
‘tagli trasversali’ al pendio della montagna, si è
preferito aggredirla con tagli diretti, accelerando il dissesto
del territorio.
Ancora
più insensata la scelta delle imprese costruttrici di
insediare in cima alla collina di Mestizal, su una superficie
di un paio di ettari, uno dei terrapieni che raccoglie parte
del materiale di scavo. L’impatto di questo immenso deposito
a cielo aperto aveva già avuto un alto costo sociale:
per spianare la superficie le autorità avevano costretto
15 famiglie ad abbandonare il sito, alcune in cambio di un indennizzo
simbolico, altre senza un pur minimo rimborso. Così,
oggi, gli abitati della ‘vereda’ subiscono una doppia
pressione: dal basso lo smottamento, dall’alto il peso
del terrapieno. Una scelta geologico-ingegneristica che a medio
termine romperà i già fragili equilibri del territorio,
decretando la scomparsa di un’area dove hanno vissuto e
lavorato per un secolo più di un centinaio di famiglie.
Un’opera
dal devastante impatto ambientale
“Nella
frazione Mestizal e sui pendii adiacenti al progetto di Connessione
stradale Valle di Aburrá - Río Cauca si presentano
attualmente processi accelerati di instabilità che hanno
causato considerevoli e gravi danni alle coltivazioni, alle
abitazioni e alla popolazione contadina insediata in questa
area” ([1]). Così si apre il rapporto-perizia del
geologo Oswaldo Ordoñez Carmona e di due giovani ingegneri
dell’Universidad Nacional de Medellín, chiamati
a valutare i danni al patrimonio edilizio causati dai lavori
per il tunnel sul versante occidentale (San Jeronimo). Lo studio,
presentato nel dicembre 2000, analizza i principali fenomeni
erosivi del territorio e rappresenta una prova scientifica,
inconfutabile, delle gravi responsabilità ambientali
delle imprese che stanno realizzando l’infrastruttura.
“Si evidenziano fratture per ‘scivolamento’ nelle
abitazioni di spessore variabile tra gli 1,5 mm e i 32,5 mm
e la dimensione di esse cresce con la vicinanza alla Connessione
viaria, indicando l’esistenza di un’associazione spaziale,
di questo processo, con le faglie nel materiale saprolitico
dei pendii. Esistono inoltre fratture ai pavimenti con spessori
di 110 mm con dislivelli di 26 cm e profondità della
frattura di 80 cm. (…). Molte delle abitazioni della zona
hanno perso di continuità strutturale, il che le rende
vulnerabili di fronte alle esigenze dinamiche che possono eventualmente
presentarsi, come sismi, alte e continue vibrazioni (al passaggio
di macchinari pesanti), ecc.” ([2]).
Lo
studio geologico imputa l’origine delle lesioni alle abitazioni
al taglio eseguito nella parte terrosa della collina e agli
effetti negativi degli scavi. Ciò ha prodotto il fenomeno
franoso, attraverso un ‘effetto domino’ che si trasmette
verso la parte superiore del pendio. “Questo effetto –
spiega il geologo dell’Universidad Nacional - si osserva
nella campagna con la presenza di fratture e collassi del terreno,
che hanno danneggiato strutturalmente le abitazioni localizzate
in cima al pendio, e che in alcuni casi stanno causando la distruzione
totale del patrimonio della popolazione circostante”. Lo
studio imputa alcuni dei danni alle proprietà anche alla
‘spinta orizzontale’ esercitata dal sovraccarico derivante
dal passaggio di macchinari pesanti per la via adacente alla
‘vereda’. “Nelle abitazioni dove è evidente
lo stato attuale di scivolamento - avverte la perizia - è
necessario prendere misure preventive e di stabilizzazione immediata
per evitare una catastrofe, ancora maggiore di quella attuale”.
Lo
studio del professor Ordoñez Carmona passa poi ad analizzare
i gravi danni al territorio ed ai sistemi strutturali delle
abitazioni di altre due zone del municipio di San Jeronimo,
soggette ai lavori di costruzione della via ‘Valle di Aburrá
- Río Cauca’. “Nelle frazioni di Piedra Negra
e degli Llanos di San Juan si sono potuti distinguere alcuni
problemi basici: scivolamenti, assestamenti e faglie per incapacità
di supporto del suolo. In alcune abitazioni sono evidenti fratture
ed inclinazioni sui muri e sul pavimento che variano dagli 1,5
mm ai 45 mm. Esistono altresì pareti che hanno perso
la continuità strutturale”. “Questo movimento
in massa – spiega la perizia - è causato dai tagli
realizzati al terreno originale con il fine di ampliare la zona
pianeggiante, insieme al cattivo controllo delle acque piovane
per l’intervento esterno” ([3]).
Anche
in questo caso ai danni prodotti dalle operazioni di scavo ed
asporto terra, si sommano quelli prodotti dal transito dei macchinari
pesanti, “macchinari che sono stati disegnati per ambienti
distanti da insediamenti umani, da abitazioni e produzioni agricole,
per il loro eccessivo rumore e per le cariche dinamiche che
generano”.
A
Piedra Negra e negli Llanos di San Juan alcune abitazioni sono
state danneggiate altresì dal cambio del regime delle
acque del suolo e dall’aumento delle infiltrazioni dell’acqua
piovana. “Questo fenomeno si sta generando per la costruzione
di un terrapieno nella via, che ha modificato la dinamica e
i livelli piezometrici dei drenaggi superficiali e sotterranei.
Da notare che questi danni al regime delle acque si verificano
in presenza di un importante affluente del río Cauca,
la ‘Quebrada San Juana’”.
La
scelta di realizzare molti dei terrapieni a ridosso di abitazioni
e casolari ha modificato le capacità di sopportazione
del suolo, causando la perdita di continuità pavimento-muri,
l’insorgenza di fratture e dislivelli nelle infrastrutture
edili, il danneggiamento delle fondamenta. “Le faglie per
incapacità di carico sono particolarmente catastrofiche”
avvertono gli esperti, che sottolineano come l’intero caseggiato
di Piedra Negra sia ad alto rischio proprio per i danni causati
da un nuovo terrapieno ivi installato.
Le
discariche degli inerti e dei materiali di risulta provenienti
dalle aree di scavo sono in realtà una delle cause principali
dei disastri al territorio causati dai lavori del consorzio
Impregilo-Minciviles.
Al
gennaio 2001, nella zona occidentale della rete viaria era stato
scavato un volume di materiale pari a 4.267.000 m3 tra terra
e roccia. In conseguenza sono sorti in tutto il municipio di
San Jeronimo decine di terrapieni e di discariche, senza una
pianificazione e uno studio ambientale, e la cui realizzazione
ha risposto solo a criteri di economicità e comodità
delle imprese subappaltatrici di movimentazione e rimozione.
Le discariche sono sorte sbancando colline, espropriando terreni
agricoli e caseggiati, disboscando aree verdi e ostruendo parzialmente
o totalmente il flusso delle acque di torrenti e sorgenti. Vere
e proprie bombe ecologiche i cui effetti si moltiplicheranno
nel tempo e a cui si aggiungeranno gli impatti delle nuove discariche
in via di realizzazione per ospitare i 420.000 m3 di terra e
roccia che devono essere ancora asportate dal tunnel e gli altri
2.100.000 m3 di terra che deve essere movimentata per il completamento
della rete stradale nel territorio di San Jeronimo. Ancora più
drammatico appare lo scenario nella zona ad est del tunnel,
nel municipio di Medellìn, dove secondo Invias, è
stato rimosso appena il 16% di terra e detriti, contro una quantità
programmata di 1.587.500 m3 ([4]).
Verso
una lotta a difesa dei diritti della popolazione colpita
L’estrema
povertà e la marginalità socio-culturale delle
famiglie che abitano le frazioni di Mestizal, Piedra Negra e
degli Llanos di San Juan, l’assenza delle istituzioni che
ne avrebbero dovuto difendere gli interessi legittimi, hanno
reso estremamente difficile il processo di autodifesa legale
contro i crescenti danni causati dai lavori di costruzione dell’asse
viario. Solo recentemente 42 famiglie di San Jeronimo sono riuscite
ad unirsi ed avviare un’azione collettiva presso il Tribunale
amministrativo per il risarcimento dei danni materiali e morali,
quantificati in circa 2 miliardi e 700 milioni di pesos. Altre
famiglie si stanno coordinando per presentare una seconda istanza
giudiziaria. Quanto avvenuto in passato in tema d’indennizzazione
dei proprietari che hanno dovuto abbandonare le abitazioni per
l’avvio dei lavori di scavo e di realizzazione delle discariche
di inerti è stato più che una truffa: Invias ha
offerto 2 milioni di pesos per unità che valevano al
catasto 8 volte di più e che ai prezzi di mercato avrebbero
potuto superare i 30 miloni di pesos. L’azione collettiva
permette di rendere meno vulnerabili le famiglie di fronte ai
gestori dell’opera viaria, e in caso di pronunciamento
favorevole del Tribunale, permetterà un primo riconoscimento
processuale delle denunce sullo scempio del territorio e dell’ambiente
causato dai lavori per la mega-opera.
La
battaglia legale si preannuncia difficile e di lunga durata.
Invias si è opposta alla proposta di conciliazione del
giudice del Tribunale amministrativo di Medellín, chiedendo
nell’udienza dello scorso 25 aprile, una proroga di 3 mesi
perché il Comitato di gestione della società valutasse
l’istanza della parte offesa. L’eccezione è
stata tuttavia respinta dal Tribunale che ha riconosciuto l’urgenza
di giungere ad una soluzione del conflitto per la fondatezza
del grave rischio all’integrità fisica delle tre
comunità di San Jeronimo e ha fissato l’apertura
del processo per il successivo 14 maggio 2001, citando come
testi gli ingegneri dell’amministrazione pubblica e della
società progettista, nonché alcuni testimoni del
dissesto ambientale del municipio. Invias ha già fatto
sapere attraverso i suoi legali di non avere alcuna intenzione
di pagare i danni in quanto essi “non sono imputabili ai
lavori di realizzazione della rete stradale” ma bensì
a non precisati “difetti di costruzione”.
L’azione
legale delle 42 famiglie danneggiate ha sortito un primo effetto
politico-istituzionale. Mentre il precedente ‘personero’
([5]) di San Jeronimo si era rifiutato di prestare qualsiasi
assistenza legale alla comunità, sostenendo apertamente
gli interessi dei costruttori ed accusando le famiglie di essere
direttamente responsabili dei danni per lucrare sull’impresa,
il nuovo personero municipale José David Morales González
ha eseguito una prima missione di valutazione dei danni alle
proprietà. Inoltre ha chiesto ufficialmente alla Governazione
di Antioquia di entrare in possesso della valutazione di impatto
ambientale che Invias ha prodotto alla vigilia dell’avvio
dei lavori.
Quello
dello studio di valutazione dell’impatto dell’opera
è uno degli elementi più contraddittori della
vicenda. Secondo Invias, la valutazione ambientale era stata
realizzata sin dal giugno ’96 ed erano state preventivate
alcune ‘opere di mitigazione’ dei danni. In realtà
la legge colombiana non prevede che l’impatto ambientale
debba essere valutato da un soggetto terzo, indipendente, ma
che lo studio debba essere prodotto ed allegato al progetto
dall’ente o dalla società proponente. La licenza
fu poi concessa dal Ministero dell’Ambiente che esonerò
Invias a presentare lo studio delle diverse alternative del
corridoio viario definitivo, richiedendo solo gli adeguamenti
e le complementazioni alle nuove norme ambientali, entrate in
vigore dopo la realizzazione dello studio di valutazione dell’impatto
dell’infrastruttura. Tra gli ‘adeguamenti’ richiesti
c’era l’esigenza di localizzazione dei materiali eccedenti
degli scavi “in accordo alle norme che regolano la materia”,
il che, come ammesso da Invias “richiede il loro trasferimento
ai siti di deposito finale con il conseguente aumento dei costi,
siti nei quali inoltre sarà necessario causare danni
ad abitazioni, coltivazioni e piccole aree boschive, o l’intervento
diretto su piccole correnti d’acqua” ([6]). Difficile
comprendere come le discariche e i terrapieni realizzati possano
aver risposto a criteri di rispetto del territorio e di mitigazione
dei danni al patrimonio edilizio e all’ambiente, dati gli
effetti che si sono registrati nelle ‘verede’ del
municipio di San Jeronimo.
La
crescente consapevolezza della popolazione sull’impatto
negativo al territorio del cosiddetto ‘Tunnel d’Occidente’
fa sì che aumentino le pressioni affinché il Municipio
di San Jeronimo apra un contenzioso con le imprese costruttrici,
per accertare le possibili violazioni normative e le eventuali
responsabilità durante la progettazione e la realizzazione
dell’opera. Da più parti si sostiene che il nuovo
asse stradale sia stato disegnato senza alcun studio geologico
e che tornanti e ponti siano stati previsti in funzione del
risparmio dei costi d’opera e non secondo i principi della
razionalità e dell’equilibrio del territorio. Sarebbero
cioè state scartate, volutamente, opzioni e tragitti
più sicuri e di minore impatto socio-ambientale, ma certamente
meno economici. Per avviare un contenzioso sarebbero necessari
però approfonditi studi geologici dell’intero territorio
comunale che richiederebbero tempi lunghi e soprattutto somme
ingenti, oggi non disponibili dal Municipio. Così cresce
il rischio che un’intera comunità venga irrimediabilmente
defraudata delle proprie risorse territoriali, privata perfino
degli strumenti legittimi che ne assicurino la tutela giudiziaria
e amministrativa. Un saccheggio del territorio, che secondo
voci raccolte tra i contadini della zona, comprenderebbe anche
l’appropiazione indebita e il furto di importanti reperti
archeologici risalenti al periodo pre-coloniale che sarebbero
stati rinvenuti nella zona durante le operazioni di scavo.
Le
finalità reali di un tunnel dalle prevedibili conseguenze
sociali
“Una
nuova via tra Medellín e Santa Fé de Antioquia,
nel momento in cui si realizzerà la terminazione della
Strada per il Mare, appoggerà il processo di espansione
urbana della città di Medellín, nel cui territorio
è sempre più difficile incontrare nuove proprietà,
adatte per l’uso residenziale, commerciale, ricreativo
e industriale, oggi richieste” ([7]). Nel suo ‘Rapporto
Esecutivo sull’opera’ del 1996, Invias non occulta
una delle motivazioni fondamentali che hanno spinto le classi
dirigenti politiche dipartimentali ad avviare i lavori per quest’opera
dal devastante impatto ambientale e socio-culturale: quello
cioè di ‘inglobare’ i vicini municipi di San
Jeronimo e di Santa Fé de Antioquia all’area metropolitana
di Medellín, trasformandone i tessuti sociali e gli impianti
urbanistico-territoriali. La meta cioè è quella
di ‘satellizzare’ i due municipi per trasformarli
in località residenziali e turistiche per le classi medio-alte
del capoluogo.
Prevedibili
gli effetti socioeconomici tra gli abitanti nativi della zona,
che saranno spinti ad abbandonare le attività agricole
tradizionali per trasferirsi nelle cinture periferiche dell’area
metropolitana, allargando il già insostenibile numero
dei nullatenenti e dei disocuppati residenti. Già nel
recente passato San Jeronimo è stato al centro di un
difficile cambio sociale: negli anni della bonanza del narcotraffico,
la località ha perso la vocazione agricola per effimeri
programmi di sviluppo turistico, con la realizzazione di ville
e residenze con piscine, la sopravvalutazione dei fondi agricoli,
l’abbandono delle campagne dei coloni, assorbiti transitoriamente
dal settore delle costruzioni, ma poi espulsi dal mercato del
lavoro negli anni ’90, quando alla recrudescenza del conflitto
politico-militare in Antioquia si sono aggiunti gli effetti
della crisi economica colombiana.
Il
paradosso di questa vicenda è che oltre a dover subire
gli impatti sociali dei nuovi programmi di urbanizzazione del
territorio rilanciati dal Tunnel d’Occidente, gli abitanti
di San Jeronimo sono stati chiamati a contribuire finanziariamente
per coprire i costi dell’opera che ne genererà lo
sradicamento e l’esodo forzato. Secondo quanto previsto
da una legge nazionale infatti, i proprietari di fondi o abitazioni
che sorgono in zone in cui è prevista la realizzazione
di una infrastruttura viaria sono sottoposti alla cosiddetta
‘valorizzazione’, una tassazione direttamente proporzionale
all’estensione della proprietà e inversamente proporzionale
alla sua distanza dall’opera. In concreto, l’onere
per la costruzione di arterie d’interesse nazionale non
è equamente distribuito tra tutti i contribuenti dello
Stato, ma pesa particolarmente su quelli che ‘utopicamente’
dovrebbero maggiormente beneficiarsi, compresi in questo caso
le famiglie che con l’avvio dei lavori hanno subito danni
per miliardi di lire. Un provvedimento singolare, per molti
versi assurdo, dato che il transito attraverso il tunnel sarà
a pagamento: tutti gli abitanti della zona che vorranno recarsi
a Medellín subiranno una seconda ‘tassazione’
diretta.
Gli
ultimi dati ufficiali parlano di 7.097 proprietari già
individuati per il pagamento della valorizzazione del ‘Tunnel
d’Occidente’, con un esborso di 14.000 milioni di
pesos in 5 anni. Molti dei piccoli proprietari di San Jeronimo
non sono in grado di provvedere a questo pagamento e ciò
potrebbe costituire un ulteriore fattore di espulsione dal municipio
e di trasferimento delle proprietà a favore di speculatori
e società di costruzioni. La vicenda delle valorizzazioni
tocca poi il caso limite delle frazioni che sorgono a monte
dell’opera, in particolare attorno alla vecchia via nazionale,
i cui abitanti sono sottoposti a tassazione anche se non usufruiranno
dell’asse viario in costruzione, in quanto sarà
sempre preferibile sia dal punto di vista dei tempi di percorrenza
che dei costi, raggiungere Medellìn attraverso la via
di comunicazione tradizionale. Gli abitanti di queste frazioni
tra l’altro, saranno ulteriormente danneggiati dal punto
di vista socio-economico dalla deviazione del traffico veicolare:
oltre all’estinzione dei mezzi di trasporto pubblico e
alla conseguente marginalizzazione, oltre 150 famiglie saranno
costrette ad abbandonare le piccole stazioni di ristoro e di
commercio informale che sorgono sul tratto stradale San Jeronimo-Medellín.
Ad esse si aggiungeranno le famiglie che sopravvivono con l’indotto,
in genere piccoli coltivatori e allevatori che riforniscono
quotidianamente i centri di ristorazione.
Il
sacrificio di decine di migliaia di abitanti espulsi per i lavori
Ancora
più grave e più drammatico lo scenario ipotizzato
per il versante orientale dell’asse stradale firmato Impregilo,
quello in via di realizzazione sulla sponda destra del torrente
La Iguana. La stessa Invias, citando un’inchiesta socioeconomica
svolta in vista della progettazione del ‘Tunnel d’Occidente’
nei quartieri popolari di Medellín attraversati dalla
nuova via, afferma che “le trasformazioni più complesse
derivate dal progetto, colpiscono le comunità che abitano
questi settori; da un lato, per il gran numero di abitazioni
di strato 1 e 2 ubicate nei primi chilometri, che è necessario
ricollocare, e dall’altro, per l’impatto nell’uso
del suolo sui piccoli fondi dedicati alla coltivazione di ortaggi,
a San Cristobal e Palmitas, la cui partecipazione nel mercato
di Medellín è vicina all’80%.”. Invias
riconosce così che le modifiche territoriali-urbanistiche
che deriveranno dal progetto genereranno l’espulsione dall’area
di famiglie di scarso reddito e la fine della vocazione agricola
di un’area di primaria importanza dal punto di vista produttivo
ed occupazionale.
Le
difficoltà di determinare a tempi brevi un programma
di ‘ricollocazione’ delle circa 1.500 famiglie che
l’Instituto Nacional de Vias ha censito nell’area
che si vorrebbe espropriare per realizzare una ‘bretella’
di congiunzione con il tunnel, nonché l’esigenza
di evitare proteste popolari che avrebbero potuto indebolire
i consensi alla realizzazione della megaopera, hanno convinto
i progettisti a disegnare una variante ‘transitoria’
di basso impatto urbanistico, che tuttavia non risolve i problemi
di accesso al tunnel, ma che anzi rischia di creare un vero
e proprio ‘tappo’ al traffico veicolare. “Queste
circostanze – spiega Invias - che sono motivo permanente
di preoccupazione per le entità di ordine municipale,
e di attenzione per l’autorità ambientale, hanno
fatto sì che nella fase della progettazione si sia prevista
un’alternativa, di carattere transitorio, che permetta
il tempo necessario per avviare un processo di negoziazione
il meno traumatico possibile con le comunità della zona
(…). Intanto, nei primi 5 chilometri stradali, si continuerà
a transitare ad una velocità non superiore ai 30 km/h”.
Di
fronte a questa valutazione appare ancora più stupefacente
che le autorità abbiano autorizzato le società
costruttrici ad intraprendere i lavori, prescindendo dalla formulazione
di un piano di ordinamento territoriale e dei trasporti urbani
ed extraurbani e glissando contestualmente alcuni problemi che
rischiano di rendere per lo meno inutile il traforo dell’Alto
de Boquerón. Che senso può avere infatti spendere
centinaia di miliardi per ridurre di una trentina di minuti
la percorrenza del tragitto da e verso San Jeronimo, quando
a causa di un imbuto stradale di circa 5 km all’ingresso
di Medellín si rischia di perdere tutto il tempo guadagnato?
Non è pertanto lecito l’interrogativo posto dagli
abitanti danneggiati dal nuovo asse viario se non era preferibile
ridurre sensibilmente i tempi di percorrenza con alcuni lavori
di miglioramento della vecchia via nazionale, magari riducendone
i tornanti ed estendendone le corsie di tansito? “Questa
scelta – commentano amaramente - avrebbe consentito un
evidente risparmio nelle spese, una notevole riduzione dell’impatto
socio-ambientale e l’opportunità di reinvestire
le risorse destinate al Tunnel per lo sviluppo ecosostenibile
del territorio”.
Mentre
la classe dirigente locale, incapace di pianificare lo sviluppo
del territorio, attende tempi migliori per avviare il progetto
di ‘desplazamiento’ forzato di circa 10.000 persone
che non troveranno un tessuto urbano disponibile ad accoglierli
ed integrarli, nessuna soluzione coerente è stata programmata
per “mitigare gli effetti socioambientali” del ‘Tunnel
d’Occidente’, segnalati dalla stessa Invias in fase
di progettazione. L’istituto aveva suggerito di avviare
l’apertura di un ufficio di attenzione alla comunità
che “permetta il contatto diretto con la popolazione e
serva d’appoggio e mezzo ufficiale d’informazione”;
di varare un Piano di ordinamento territoriale ed un procedimento
per la negoziazione delle proprietà e delle abitazioni
direttamente colpite; di tenere in conto l’attività
economica delle persone danneggiate “in modo da offrire
soluzioni integrali che garantiscano che l’effetto del
progetto sia un beneficio in luogo di un pregiudizio”.
Invias aveva segnalato infine l’esigenza di studiare la
fattibilità di vincolare la forza lavoro disponibile
nella zona “composta da un numero importante di giovani
disoccupati e con poche alternative di attività economiche
legali”, tanto nelle opere di costruzione della strada
e del tunnel, come nell’esecuzione dei progetti di riubicazione
che potrebbero generarsi. Inutile dire che a 4 anni dall’inizio
dei lavori nessuno di questi ‘suggerimenti’ è
stato tenuto in conto dagli enti locali finanziatori e dalle
società costruttrici.
Il
tema dell’occupazione, tanto decantato populisticamente
alla vigilia del progetto, si è dimostrato una beffa
per i numerosi disoccupati della zona. Grazie ai meccanismi
dei subappalti e del cottimo, i lavori sono stati frammentati
e le piccole imprese aggiudicatrici hanno preferito contrattare
mano d’opera a basso costo in altri dipartimenti del paese.
Attualmente nel municipio di San Jeronimo è insignificante
il numero di occupati nella realizzazione dell’asse viario.
Cosa ancora più grave è la mancanza di tutele
e l’alto tasso di sfruttamento dei lavoratori impiegati:
gli operai percepiscono una retribuzione di appena 8.000 pesos
al giorno per turni di lavoro che si estendono dalle 6 del mattino
alle 18 della sera. Nello stesso municipio contadini e braccianti
arrivano a percepire una media di 10.000 pesos diari e pertanto,
se anche i lavori fossero stati aperti alla manodopera locale,
difficilmente sarebbero stati attrattivi.
Un’opera-monumento
allo spreco economico
Gli
errori nella previsione dei costi di mitigazione dell’impatto
ambientale del ‘Tunnel d’Occidente’, in particolare
del tratto viario di collegamento tra Medellín e l’ingresso
orientale del tunnel (quartiere San Cristobal) sono una delle
principali cause delle difficoltà nell’avanzamento
dei lavori e dei forti ritardi accumulati dalle imprese costruttrici.
Come riconosciuto dall’ultimo rapporto sull’avanzamento
del progetto, febbraio 2001, “in questo settore di 5 km.
non è stato realizzato quasi niente per le difficoltà
affrontate nella liberazione delle proprietà esistenti”
([8]). Sono risultate completamente errate le previsioni sul
numero di proprietà da espropriare e di conseguenza sull’incidenza
dei costi: nello studio di fattibilità erano state individuate
897 proprietà da indennizzare; oggi sono già 1.231
(425 addizionali), ma i titolari dell’opera preannunciano
che “potrebbe ancora aumentare il numero delle proprietà
necessarie durante il periodo che manca al completamento dell’opera”.
L’aumento
maggiore si registra proprio nel versante di Medellín,
con 145 abitazioni aggiuntive da indennizzare; tuttavia una
fetta significativa (+117) ricade nella parte occidentale del
tronco viario “a causa delle frane a Montebonito e di alcune
abitazioni esistenti in una zona divenuta ad alto rischio”.
Sottostimato, infine, l’impatto sulle proprietà
che ricadono nei pressi dei depositi di materiale inerte. Nonostante
resti da riubicare più della metà della terra
e delle rocce rimosse nelle opere di scavo del tunnel e del
sistema viario, sono già 22 le proprietà non previste
a cui è già stato riconosciuto il diritto all’indennizzo.
Ciò
non potrà che avere preoccupanti ricadute sul costo finale
dell’opera. Il progetto originale integrale, quello cioè
che prevedeva il trasferimento forzato di 1.500 famiglie per
garantire l’accesso al tunnel, prevedeva nel giugno 1996
una spesa di 183.758 milioni di pesos, di cui ben 35.795 milioni
erano destinati a coprire i ‘costi ambientali e sociali
del progetto’. Con la variante ‘transitoria’,
la previsione di spesa si riduceva a 143.190 milioni di pesos
e la voce riferita alla ‘mitigazione dell’impatto
socio-ambientale’ veniva drasticamente tagliata a 7,709
milioni. Ad appena 4 anni di distanza i costi della mega-opera
si sono sovradimensionati significatamente. Nel suo rapporto
del gennaio 2001, Invias prevede che al termine dei lavori,
tunnel ed infrastrutture stradali raggiungeranno una spesa per
228.976 milioni di pesos, a cui dovranno essere aggiunti 24.381
milioni per l’indennizzo delle proprietà espropriate
e 1.481 milioni per le ‘spese di gestione’. In totale
si raggiungerebbero i 254.838 milioni di pesos, quasi il doppio
dei costi preventivati senza gli oneri per la ‘riubicazione’
delle famiglie di San Cristobal. Una popolazione questa, che
a seguito delle nuove invasioni generate dalla recrudiscenza
del conflitto colombiano e dai processi di ‘desplazamiento’
sviluppatisi nel dipartimento, presumilmente è più
che raddoppiata rispetto alle stime del 1997.
La
criticità della situazione finanziaria per il completamento
dei lavori del ‘Tunnel d’Occidente’ è
una delle maggiori preoccupazioni delle entità finanziatrici
dell’opera. Secondo Invias attualmente mancherebbero in
bilancio 42 miliardi di pesos, di cui 12 in conto dello stesso
Istituto statale e 30 della Governazione di Antioquia, del Municipio
di Medellìn e dell’Area Metropolitana; gli enti
territoriali hanno dichiarato però l’impossibilità
a mantenere gli impegni per la mancanza di fondi in bilancio.
Una situazione in cui non è possibile preventivare una
via d’uscita a medio termine. In realtà gli enti
territoriali potrebbero far fronte agli impegni finanziari solo
se ottenessero crediti da parte delle banche internazionali
(accrescendo il loro già imponente debito esterno), e
riducessero ulteriormente gli investimenti a favore delle politiche
sociali, già estremamente deficitarie specie nel campo
della salute e dell’educazione. Non appare sufficiente
a consentire una boccata d’ossigeno l’apporto di un
credito per 30.844 milioni di pesos che secondo il contratto
sottoscritto con Invias, l’unione temporale Impregilo-Minciviles
deve apportare per la realizzazione del progetto e che comunque
è già argomento di polemica tra le parti contrattuali.
“Se in agosto non sarà fornito questo credito, non
sarà più prorogato il contratto” ha preannunciato
pubblicamente l’Alcalde di Medellín Luis Pérez
Gutiérrez, confermando il clima di sfiducia che serpeggia
tra i protagonisti finanziari dell’infrastruttura.
A
peggiorare la situazione si è aggiunto un ulteriore errore
di valutazione in sede progettuale, relativo ai fondi che si
sarebbero dovuti conseguire con la copertura dei pedaggi. Invias
aveva preventivato un guadagno di oltre 14 miliardi di pesos
all’anno, grazie al transito dal tunnel di 4.780 auto al
giorno (stime nel 2002), che 18 anni più tardi sarebbereo
divenute 7.350. Oggi Invias riconosce di avere sovrastimato
il traffico veicolare sulla nuova arteria e preferisce valutare
intorno a 2.100 i veicoli in transito a fine opera, con un guadagno
di poco superiore ai 6 miliardi di pesos ([9]).
Considerato
l’acutizzarsi del conflitto e della crisi economica, è
del tutto utopico che a breve e medio termine si possa sperare
in un aumento del flusso veicolare, anzi gli indicatori lasciano
pensare che si vada più verso un’inversione di tendenza.
Nel 2000 Invias ha registrato una media del 13% nella riduzione
del traffico veicolare sulle principali vie nazionali, con punte
sino al 40% in quelle maggiormente investite dal conflitto,
come l’importante strada Bogotà-Medellín.
Con queste stime, il tunnel rischia di assumere tutti gli aspetti
di una nuova cattedrale del deserto, ove si accumulano annualmente
bilanci in rosso ed indebitamenti.
La
mancata copertura finanziaria ha già avuto come conseguenza
la posticipazione a tempo indeterminato dell’entrata in
funzione dell’opera, prevista per la metà dell’anno
2002. Come riconosciuto dalle imprese costruttrici, attualmente
si lavora nei cantieri al 25% del ritmo programmato, mentre
sono del tutto fermi i lavori nella parte orientale del tunnel.
E’ stato accumulato un debito di 12 milioni di dollari
per il pagamento di stipendi e lavori già eseguiti e
le imprese hanno deciso di ridurre buona parte della manodopera
impiegata. Secondo il Ministero dei Trasporti ci sarebbe denaro
sufficiente per continuare i lavori per non più di un
paio di mesi e in mancanza di nuovi contributi finanziari, l’opera
potrebbe essere sospesa già a partire del secondo semestre
del 2001. Data l’assenza di opere di pavimentazione della
rete stradale già realizzata, il blocco dell’opera
rappresenterebbe secondo il Ministero “un deterioramento
terrificante dell’infrastruttura” ([10]).
“I
debiti di Invias, Dipartimento di Antioquia, Municipio di Medellín
e Area Metropolitana pongono in dubbio la continuità
del progetto” ha espresso con forte preoccupazione la Controloría
General de la República, organismo con poteri similari
alla Corte dei Conti italiana. “Il non compimento degli
esborsi programmati ha generato in conseguenza ritardi che superano
in media i 160 giorni e maggiori esborsi per ognuna delle istituzioni
proprietarie. Ciò costituisce un eventuale detrimento
del patrimonio di ognuna delle entità sociali e potrebbe
motivare indagini disciplinari contro i responsabili delle stesse”
([11]).
Il
Tunnel fortuna politica di alcuni leader della borghesia locale
Nonostante
i dissesti al territorio e i sempre maggiori sprechi finanziari,
un’intera classe politica ha costruito la propria fortuna
grazie al mito del ‘Tunnel d’Occidente’, ancora
oggi considerato nell’immaginario collettivo il motore
per lo sviluppo di Medellín e dell’area di San Jeronimo-Santa
Fé de Antioquia. Governatori, sindaci, parlamentari,
consiglieri municipali hanno promosso in tutte le sedi istituzionali
l’idea progettuale, sponsorizzati dai principali mezzi
di comunicazione di massa, attenti questi a che non maturassero
dubbi o critiche tra l’opinione pubblica. L’impegno
a favore del Tunnel ha permesso di ottenere consensi, di sviluppare
clientele, di rafforzare la propria immagine e il proprio potere
politico e contrattuale.
La
promozione dei lavori di realizzazione è stata utilizzata
in occasione di tutte le recenti campagne elettorali, e talvolta
si è arrivati a sfiorare il ridicolo nella competizione
tra coloro che potevano dimostrarne la paternità. Il
6 ottobre 2000 ad esempio, venti gioni prima dell’appuntamento
per il rinnovo dei poteri locali (Governación, Alcaldía
e Consigli dipartimentali e comunali) le più alte cariche
civili e militari dello Stato, presente il Presidente della
Repubblica Andrés Pastrana, hanno dato vita ad una inaugurazione
‘virtuale’ del ‘Tunnel d’Occidente’,
nonostante mancasse quasi il 50% dei lavori di esecuzione dell’opera.
Quasi un commiato per il Sindaco uscente di Medellín,
Juan Gómez Martínez, già governatore di
Antioquia e ministro dei Trasporti durante il governo di Ernesto
Samper, che ha avuto l’onore di tagliare il classico nastro
inaugurativo. L’infrastruttura è stata intitolata
all’ingegnere Fernando Gómez Martínez, padre
dell’Alcalde e fondatore del quotidiano ‘El Colombiano’,
uno dei più importanti della Colombia, organo portavoce
della potente borghesia imprenditrice di Antioquia.
L’impegno
di Juan Gómez Martínez a favore dell’opera
viaria è stato indiscutibile, ma altri politici di primo
piano della regione si sono battuti per la sua realizzazione.
Tra essi compare un altro ex governatore di Antioquia, Alvaro
Uribe Vélez (figlio del deceduto narcotrafficante Alberto
Uribe Sierra), notoriamente vicino al paramilitarismo e alle
organizzazioni di ‘giustizia privata’ Convivir, oggi
candidato di estrema destra per le Presidenziali del 2002 e
strenuo oppositore ad ogni ipotesi di dialogo con le organizzazioni
della guerriglia colombiana.
I
lavori per l’infrastruttura sono stati appaltati dall’allora
direttore di Invias, Guillelmo Gaviria Correa, passato poi a
ricoprire la carica di Consigliere del Governo di Alberto Fujimori
per il Piano Strategico del Settore Trasporti in Perù.
Gaviria Correa, liberale, è stato recentemente eletto
a governatore del Dipartimento di Antioquia. L’opera gli
ha portato indiscutibilmente fortuna: una foto con le attività
di scavo del tunnel d’Occidente faceva da sfondo al proprio
manifesto elettorale. “Fortunatamente c’è sempre
una luce alla fine di un tunnel” recitava l’eloquente
slogan prescelto per la campagna.
Di
Guillelmo Gaviria Correa è noto l’impegno in Invias
per avviare imponenti e costose reti stradali in tutta la Colombia.
Un impegno per lo sviluppo del trasporto veicolare che tuttavia
ha lasciato un lungo strascico d’inchieste giudiziarie
che pongono seriamente in dubbio il futuro del politico alla
guida della Governazione. Attualmente sono già 7 le indagini
avviate per presunte violazioni amministrative e irregolarità
commesse nell’aggiudicazione di alcune licitazioni pubbliche.
Se si dovesse giungere al rinvio a giudizio, il Tribunale potrebbe
decretarne la sospensione e perfino la destituzione dall’incarico
([12]).
La
specificità della violenza in Antioquia e nell’area
metropolitana di Medellín
Ciò
che più lascia sorpresi della decisione del colosso italiano
delle costruzioni di partecipare alla realizzazione della Connessione
stradale Valle di Aburrá - Río Cauca, non è
tanto la ‘sottovalutazione’ degli aspetti socioambientali
dell’opera o l’eccessiva fiducia offerta agli interlocutori
istituzionali e ai finanziatori locali, ma il fatto di avere
scelto un’area d’investimento tra le più insicure
e violente dell’intero continente latinoamericano.
Stato
e società civile concordano in Colombia nell’indicare
il dipartimento di Antioquia come quello dove continua a verificarsi
il maggior numero di violazioni dei diritti umani (594 casi
accertati nel ’99), e del diritto internazionale umanitario
(674). Nella regione si susseguono quotidianamente massacri,
omicidi selettivi, sequestri e ‘desplazamientos’ massivi.
Il 2000 è stato certamente peggiore per il dipartimento
e per tutta l’area metropolitana di Medellín. Il
rapporto presentato dall’IPC (Instituto Popular de Capacitaciòn)
di Medellín sulla condizione dei diritti umani nella
regione, ha denunciato come nel solo primo semestre dello scorso
anno si sono avuti 3.729 omicidi, contro le 6.064 morti violente
registrate nell’intero 1999. In relazione ai massacri,
l’IPC ha registrato nel periodo compreso tra il gennaio
1997 e il giugno 2000, 213 massacri con 1.265 vittime.
In
riferimento al ‘desplazamiento’ forzato, il rapporto
dell’IPC segnala come negli ultimi tre anni dalle differenti
regioni del dipartimento siano state espulse 149.218 persone,
mentre il capoluogo Medellín si è convertito nella
principale città di ricezione, con oltre 30.000 desplazados
rifugiatisi in 43 ‘asentamientos’, molti dei quali
privi dei più elementari servizi sociosanitari ed educativi.
Si calcola che nella sola cintura periferica di Medellín,
oltre 80.000 desplazados dalla violenza non abbiano accesso
ai servizi basici e all’uso di energia elettrica ed acqua
potabile. Rispetto alle violazioni contro la libertà,
l’organizzazione non governativa ‘Paìs Libre’
ha documentato nell’anno 2000 in Antioquia 816 casi di
sparizione forzata e 732 sequestri. Nei soli primi 4 mesi del
2001, sono già stati registrati nel dipartimento 79 sequestri
e 2.283 sparizioni forzate ([13]).
In
questo crescente scenario di violenza che affligge l’intero
dipartimento, la città di Medellín continua ad
essere la più colpita. Nell’ultimo decennio sono
state assassinate in città 41.556 persone delle quali
l’87,52% per arma da fuoco. Negli ultimi due anni gli omicidi
sono particolarmente aumentati: 3.258 nel 1999, 1.553 quelli
dei primi sei mesi del 2000. Le cronache dei primi 5 mesi del
2001 testimoniano la tragedia in atto: si sono moltiplicati
i conflitti a fuoco per il controllo del territorio, interi
quartieri del centro storico o delle periferie marginalizzate
subiscono un vero e proprio stato d’assedio da parte dei
gruppi armati, le organizzazioni criminali sono tornate a sperimentare
gli attentati terrostici e le stragi che avevano caratterizzato
gli anni del predominio mafioso di Pablo Escobar.
Solo
durante il ponte festivo del primo maggio, nella città
di Medellìn sono state assassinate 47 persone; il successivo
17 maggio invece, una carica di esplosivo nascosta in un auto
parcheggiata davanti alcuni ritrovi del ricco quartiere del
Poblado, ha causato la morte di 8 cittadini e il ferimento di
altri 180. Sempre a metà maggio un gruppo armato ha fatto
irruzione in un ‘barrio’ popolare che ospita un centinaio
di famiglie fuggite da altri municipi di Antioquia, appiccando
un incendio che ha distrutto numerosi rifugi di fortuna. Il
ponte festivo di fine maggio è stato turbato dall’assassinio
di una ventina di giovani appartenenti a bande contrapposte.
Secondo l’analisi dei ricercatori dell’Ipc, questa
spirale di morte sarebbe originata per “l’irruzione
nella città di nuovi attori armati, il rafforzamento
di quelli esistenti o la realizzazione di nuove alleanze tra
essi”. “Medellín –aggiunge l’’Asamblea
Permante por la Paz’ di Antioquia - si è caratterizzata
come un territorio in disputa tra i differenti gruppi armati
sin dalla metà degli anni ’80, però tra il
1995 e il 2000, la città sperimenta una situazione dove
s’incrociano il politico e il delinquenziale. Si sviluppa
un modello di controllo sociale basato su uno schema di subcontrattazione
del potere tra i gruppi delle ‘Autodefensas’ e i gruppi
criminali, che a loro volta controllano il resto delle bande.
Ciò genera una proliferazione dei gruppi armati che controllano
il territorio e che in esso, realizzano azioni parastatali attraverso
l’esercizio del monopolio della forza, della giustizia
e dell’estorsione (…). Al contrario, questo è
un periodo di regresso nella presenza delle organizzazioni miliziane
legate alle forze insorgenti, le quali a causa dell’attacco
delle organizzazioni criminali, sommate ai loro abusi contro
la popolazione e ai processi di decomposizione interna, si sono
ridotte alle espressioni minime in settori assai esterni della
città e si dedicano al rafforzamento delle strutture
di appoggio logistico ed economico dei fronti rurali che operano
nel dipartimento di Antioquia”.
Nelle
aree più povere e marginalizzate del municipio di Medellín
è in corso una vera e propria guerra dove i gruppi e
le bande giovanili, compromosse nel traffico di sostanze stupefacenti
e nelle attività estorsive, alleatesi con le organizzazioni
paramilitari, hanno avviato una controffensiva tendente ad eliminare
i gruppi della guerriglia urbana. “Si è verificato
un cambio nel modello di controllo della città –
conclude l’articolata analisi dell’Asamblea por la
Paz – a causa della penetrazione diretta di unità
militari del ‘Bloque Metro’ delle Autodefensas Unidas
de Colombia (AUC), che impongono la subordinazione delle bande
e dei gruppi giovanili e scatena la guerra totale contro le
strutture delinquenziali e contro le espressioni sopravvissute
che simpatizzano con l’insorgenza, o contro coloro che
non si sottomettono” ([14]).
I
diritti negati nel dipartimento delle grandi opere
La
strumentalizzazione per fini ‘politici’ della criminalità
giovanile rende ancora più esplosivi e complessi gli
scenari del conflitto colombiano. Nelle zone di periferia, opererano
talvolta con repentini mutazioni nelle alleanze, ben 309 bande
criminali a cui sarebbero affiliati tra gli 8.600 e i 9.000
giovani. Il dato testimonia il fallimento dei programmi pubblici
implementati per prevenire il disagio giovanile, drasticamente
ridotti a causa dei tagli finanziari alle politiche sociali,
spesso su pressione dei maggiori istituti monetari internazionali
(Banca Mondiale e Fondo Monetario Internazionale).
“Durante
i tre anni dell’amministrazione di Juan Gómez Martínez”
- ha denunciato la Corporación Región di Medellín,
una delle maggiori associazioni dei diritti umani della città
– si è presentato un deterioramento accelerato dei
diritti economici, sociali e culturali della popolazione e in
particolare delle condizioni e della qualità della vita
dei settori più vulnerabili della popolazione”.
Secondo la Corporazione la disoccupazione è cresciuta
di 5 punti (attualmente i disocuppati a Medellìn sarebbero
295.000 con un indice del 21,2%, il più alto di tutta
la Colombia, mentre coloro che sono dediti ad attività
economiche informali sono il 28,5%), e sono aumentati i tagli
alle spese sociali per destinare la spesa pubblica, in particolare
quella destinata all’educazione e alla sanità, “a
favore delle grandi opere infrastrutturali e degli interessi
dei settori privilegiati della città”([15]).
I
dati forniti dalla Secretaría de Educación de
Antioquia confermano il collasso del sistema scolare nel dipartimento.
La popolazione descolarizzata tra i 5 e i 17 anni è di
71.250 minori. Nell’educazione primaria, il 14,63% dei
bambini tra i 6 e gli 11 anni sono rimasti fuori dal sistema
scolare; nell’educazione basica secondaria, un altro 15,8%
di giovani in età compresa tra i 12 e i 15 anni non tiene
il diritto all’accesso ad un’aula. Ancora peggiore
la situazione nell’educazione media-superiore (ciclo 10
ed 11), dove oltre il 20% dei giovani non trova posti disponibili
nelle istituzioni educative pubbliche o private.
La
qualità dell’offerta educativa è inoltre
bassa e scarsamente attrattiva, specie per i giovani con difficoltà
di apprendimento o con problematiche psicosociali. La diserzione
è del 6,64% nella basica primaria e del 6,47% nella secondaria.
Ai bambini è inoltre negato il diritto ad uno sviluppo
equilibrato e alla salute. Secondo uno studio dell’Università
di Antioquia la denutrizione generale dei bambini in età
scolare di Medellín è passata dal 31% del 1989
al 44% del 1998. Tra i bambini minori di 5 anni invece, il 9%
soffre di denutrizione cronica o ritardo nella crescita.
Il
tasso di mortalità neonatale è del 12 per mille.
Secondo la ‘Sociedad de Neonatología’, in Antioquia
nel 1998 sarebbero morti 1.764 bambini con meno di un anno di
età, 434 dei quali a Medellín. Le principali cause
sarebbero i forti tagli alla spesa sanitaria e la conseguente
scarsa attenzione medica a favore dei prematuri.
In
termini di indice di sviluppo umano, nonostante i segnali di
ripresa economica registratisi, Antioquia mantiene il ritardo
con la media nazionale. Il tasso di omicidi è di 109
ogni centomila abitanti (il più alto di tutta l’America
Latina), contro il valore medio nazionale di 59; la speranza
di vita alla nascita nel dipartimento è di appena 68
anni (due in meno rispetto alla media colombiana); i processi
di sfruttamento intensivo delle risorse ambientali sono tra
i più elevati del continente (il tasso annuale della
deforestazione in Antioquia è del 4%, contro una media
continentale dell’1,2%) ([16]).
Tra
le molteplici cause della forte disuguaglianza sociale e dell’escalation
della violenza in Antioquia e nell’area metropolitana di
Medellín, è indubbio il ruolo esercitato dalla
implementazione nella regione di ingenti programmi infrastrutturali
(bacini carboniferi, tunnel e corridoi autostradali, centrali
idroelettriche, aree portuali e zone franche, perfino un canale
che congiunga l’Atlantico al Pacifico in alternativa a
quello di Panama), che si sono caratterizzati per lo spreco
delle risorse finanziarie ed umane, l’alta esclusione sociale,
lo squilibrio territoriale, il forte impatto socioambientale,
l’assenza di pianificazione integrale e di promozione dell’occupazione.
I
megaprogetti, non hanno coinvolto le comunità locali
e sono integrati nella visione di ‘globalizzazione neoliberale’
delle classi dirigenti. Come spiegato dall’Instituto Popular
de Capacitación di Medellín, “mentre si espande
la regione metropolitana attraverso i megaprogetti per generare
condizioni infrastrutturali nelle nuove condizioni di competizione
globale e attraverso il capitale straniero, si fanno più
profonde l’espulsione permanente della popolazione nativa
da estese zone rurali e le condizioni di povertà e miseria
tanto nelle campagne che nel capoluogo” ([17]).
Le
aree di Antioquia dove s’incontrano le fonti naturali,
idriche ed energetiche e le terre più fertili e dove
sono previste le megainfrastrutture coincidono in modo sorprendente
con quelle dove più intenso e violento si è fatto
lo scenario del conflitto colombiano. Sono queste le aree su
cui si è esteso il controllo dei gruppi paramilitari.
Non è casuale che i massacri eseguiti in particolare
dalle ‘Autodefensas Unidas de Colombia’, l’organizzazione
paramilitare più attiva nel dipartimento di Antioquia,
sono stati pianificati per strappare alle guerriglie il controllo
dei corridoi strategici interoceanici e tra essi il territorio
attraversato dalla cosiddetta ‘Via del Mare’ che collega
Medellín all’Urabá e all’Atlantico e
di cui la Connessione stradale Valle di Aburrá - Río
Cauca e il ‘Tunnel d’Occidente’ sono due segmenti
chiave. E’ attraverso questi corridoi strategici in disputa
tra i differenti attori armati, che si registrano in Antioquia
imponenti attività economiche e i traffici di stupefacenti
ed armi.
Gli
interessi italiani nella regione più violenta dell’America
Latina
La
zona occidentale prossima al ‘Tunnel d’Occidente’
(tra i municipi di San Jeronimo e Santa Fé de Antioquia)
ad un osservatore superficiale, potrebbe sembrare estranea alle
logiche del conflitto che sta lacerando il tessuto sociale e
il territorio del dipartimento. In realtà in quest’area
sono assenti gli scontri a fuoco tra gli attori armati e sono
assai rari gli omicidi, i massacri e i sequestri. Questo ‘paradiso’
di Antioquia tuttavia è ‘assicurato’ dal pieno
controllo del territorio esercitato dalle ‘Autodefensas’
di Carlos Castaño che hanno eliminato qualsiasi influenza
guerrigliera e che in cambio della ‘pace sociale’
hanno istituzionalizzato l’estorsione a danno dei proprietari
agricoli, dei commercianti e dei piccoli produttori locali.
Recentemente tutti i titolari di bar e rivendite di bibite di
San Jeronimo sono stati convocati dai leader paramilitari ad
un incontro ‘pubblico’ dove è stata formalizzata
loro l’imposizione di una tassazione di 1.000 pesos per
ogni cassa di birra e 700 pesos per ogni cassa di bevande gassate
introdotte nel municipio.
Al
sistema della ‘vacuna’ non si sottraggono i commercianti
e gli allevatori delle regioni su cui è esercitato il
monopolio del potere da parte delle due maggiori organizzazioni
guerrigliere che operano nel dipartimento di Antioquia, le Farc
e l’Eln. Tantomeno sono esenti a procedimenti estorsivi
le grandi imprese nazionali e straniere che operano nei settori
di estrazione e sfruttamento delle risorse minerarie e petrolifere
o nella realizzazione delle centrali idroelettrihe e delle grandi
opere infrastrutturali. Nonostante il peso estortivo, l’intensità
della violenza e il numero impressionante di sequestri a danno
del personale straniero in Antioquia – di cui non è
rimasta indenne la stessa Impregilo che ha subito nel maggio
1998 il sequestro dell’ingegnere Marco Tentorio, rilasciato
15 mesi più tardi dall’Eln, dietro il pagamento
di un ingente riscatto - il dipartimento continua ad esercitare
una forte attrazione del capitale internazionale. Nel 1999,
mentre in Colombia gli investimenti stranieri sono diminuiti
del 6% rispetto all’anno precedente, in Antioquia essi
sono quasi triplicati, passando dai 54,6 dollari per abitante
del ’98, ai 147,5 del ’99.
Alla
progettazione e alla realizzazione delle opere infrastrutturali
dall’alto impatto socioambientale hanno avuto un ruolo
determinante alcune importanti imprese italiane. Oltre al ‘Tunnel
d’Occidente’ in mano al consorzio temporale italo-colombiano
Impregilo-Minciviles, va segnalata la partecipazione del consorzio
Astaldi-C.M.C.-Federici-Racchi-Topco, alla prima fase dei lavori
per la centrale idroelettrica ‘Porce II’ (potenza
prevista 392 Mw), nel territorio dei comuni di Yolondó,
Amalfi e Gómez Plata, una delle regioni più colpite
dalla violenza di tutta Antioquia.
Un’esperienza
questa del ‘Porce II’ non certo felice per alcune
delle maggiori imprese di costruzione italiana. Il consorzio
infatti ha deciso a fine 1998 di ritirarsi perché era
divenuto eccessivamente oneroso il proseguimento dei lavori.
Le imprese italiane hanno fatto ricorso ad un Tribunale d’arbitrato
per ottenere il riconoscimento di un pagamento aggiuntivo da
parte della società contraente (EPM - Empresa Pública
de Medellín) di 150 miliardi di lire “per costi
sovraggiuntivi generati dalla situazione di ordine pubblico
nella regione in cui si stavano realizzando le opere, per la
rivalutazione del peso colombiano e per l’impatto dell’Iva”.
Solo per l’ordine pubblico, le imprese avevano reclamato
un sovraccarico di 53,3 miliardi di pesos. Nel marzo 2000 il
Tribunale d’arbitrato ha tuttavia respinto la richiesta
del consorzio, facendo sue le ragioni di EPM, secondo cui “il
problema di ordine pubblico era una circostanza prevedibile
e di esso era stato avvertito il contrattista”.
Il
consorzio Astaldi-C.M.C.-Federici-Racchi-Topco mantiene aperto
un ulteriore contenzioso giudiziario con EPM che richiede un
risarcimento per il non ‘adempimento contrattuale’
per un valore di 140 milioni di dollari. Di fronte ad un’esperienza
così negativa per entrambe le parti contrapposte, sarebbe
legittimo attendersi la rottura definitiva di qualsiasi rapporto
colombo-italiano. Basta invece osservare i successivi sviluppi
di alcuni dei protagonisti del contenzioso per verificare che
le cose sono andate diversamente. L’amministratore del
tempo di EPM, Ramiro Valencia Cossio, è oggi ministro
dell’Energia e del Petrolio e con il fratello, neo ambasciatore
colombiano a Roma, ha lanciato un appello agli investitori italiani
per accorrere all’implementazione dei nuovi progetti idroelettrici
in Antioquia (centrali idroelettriche ‘Porce III’
e Pescadero-Ituango). Un appello raccolto dall’ambasciatore
d’Italia in Colombia, Felice Scauso, che in occasione di
un recente visita a Medellín, ha espresso all’Alcalde
la disponibilità del nostro paese a cofinanziare le due
infrastrutture.
Da
parte sua, la società colombiana ‘Topco’, altra
componente del consorzio dell’idroelettrica, ha modificato
il proprio nome in ‘Minciviles’ ed è entrata
in società con Impregilo per la realizzazione della Connessione
stradale Valle di Aburrá - Río Cauca. Il cambio
di denominazione è stato deciso dopo che il Tribunale
colombiano aveva dichiarato nel 1999 la ‘decadenza amministrativa’
o ‘caducidad’ della società, proprio a seguito
dell’inadempienza degli impegni contrattuali sottoscritti
per la realizzazione di ‘Porce II’. Attualmente ‘Minciviles’
è tra le società in gara per l’aggiudicazione
dell’altra grande galleria sotterranea progettata in Antioquia,
il ‘Tunnel d’Oriente’, richiesta fermamente dalle
classi dirigenti senza che ne siano stati valutati gli impatti
ambientali e i reali costi-benefici. Concretamente si prevede
la realizzazione di un tunnel veicolare di 8,3 km e 16 km di
vie d’accesso entro il 2007, attraverso i municipi di Rionegro,
La Ceja, Marinilla, El Santuario, El Carmen de Viboral e El
Retiro in una delle regioni maggiormente investite dal conflitto
paramilitare-guerriglia e dove sono stati numerosi i casi di
massacri della popolazione, di sparizione forzata e di sequestro.
Proprio in questa zona, appena un anno fa, tre tecnici italiani
che operavano alla manutenzione dei macchinari di un’industria
per la produzione di cioccolato sono stati sequestrati e rilasciati
dopo una settimana da un gruppo criminale non identificato.
Appetiti
Impregilo sulle megacentrali di Antioquia
E’
indubbio che la potente lobby politico-economica che lega l’Italia
alla Colombia, e in cui gioca un ruolo da protagonista l’Impregilo,
punti proprio alla realizzazione del ‘Porce III’ (potenza
di 700 Mw) e della centrale idroelettrica Pescadero-Ituango,
due progetti finalizzati a trasformare la regione di Antioquia
nel più grande generatore di energia elettrica del paese
e ad aprire le porte all’esportazione di elettricità
verso il mercato centroamericano.
In
particolare, la centrale idroelettrica Pescadero-Ituango emerge
come uno dei progetti più devastanti dal punto di vista
sociale ed ambientale previsti in Colombia, e per la cui realizzazione
è determinante la conclusione della Connessione stradale
Valle di Aburrá - Río Cauca, vera e propria arteria
di penetrazione alla regione a 170 km a nord-ovest di Medellín.
Qui dovrebbe sorgere una megacentrale idroelettrica con una
potenza di 1.800 megawatt, grazie alla realizzazione di una
diga alta 185 metri ed un bacino artificiale che raccoglierà
le acque del río Caucacubi inondando 2.770 ettari di
terreni appartenenti a 7 municipi della zona. Un progetto che
prevede la riubicazione di centinaie di famiglie dedite all’agricoltura
e all’allevamento. Imponente il costo preventivato per
la idroelettrica Pescadero-Ituango: 1.400 milioni di dollari
a cui si aggiungeranno altri 350 milioni di dollari per il pagamento
degli interessi al tasso del 7,5% annuo, per i finanziamenti
che saranno concessi dalle banche internazionali.
Titolare
della società ‘Idroelettrica Pescadero-Ituango’
è un consorzio in cui compaiono il Dipartimento di Antioquia,
l’ ‘Instituto para el Desarrollo de Antioquia’
(Idea), EPM, la società elettrica in fase di privatizzazione
‘Isagen’ e la ‘Integral S.A’, impresa che
ha ottenuto da Invias il contratto di 7.400 miloni di pesos
per il monitoraggio dei lavori e il sostegno al management per
il ‘Tunnel d’Occidente’. La ‘Integral S.A’,
inoltre, tra il 1979 e il 1982 ha eseguito lo studio di fattibilità
dell’idroelettrica Pescadero-Ituango, determinandone la
localizzazione, le caratteristiche basiche e i costi economici.
La stessa ‘Integral S.A.’, tre anni fa, ha adeguato
lo studio di fattibilità modificandone i costi progettuali
e inserendo la (propria) valutazione d’impatto ambientale
([18]).
Come
nel caso del ‘Tunnel d’Occidente’, anche quest’opera
è fortemente sostenuta e sponsorizzata dall’élite
politico-amministrativa locale e dal quotidiano di Medellìn
‘El Colombiano’ di proprietà della potente
famiglia Gómez Martínez. Poco importa che tutte
le scelte di privilegiare le megainfrastrutture in Antioquia
abbiano causato l’insostenibile indebitimamento delle autorità
locali con i maggiori organismi internazionali. Per pagare gli
arretrati del ‘Metro di Medellín’ opera che
appena entrata in funzione si è dimostrata sovradimensionata
e dalla gestione onerosissima, il Governo ha dovuto ricorrere
ad un prestito del FMI di 180 milioni di dollari nel biennio
2001-02. L’indebitamento ha poi costretto le autorità
locali a chiudere i programmi innovativi a favore delle categorie
più svantaggiate (indigenti, bambini di strada, donne
capofamiglia, ecc.).
Per
garantire la sopravvivenza dei programmi minimi nel settore
dell’educazione e dei servizi sociali, la Governazione
di Antioquia e il Municipio di Medellín sono stati costretti
a ricorrere ad ulteriori aiuti ‘debitori’ da parte
della Banca Mondiale e del Banco Interamericano de Desarrollo
(BID) ([19]). Una vera e propria spirale del debito, nel saccheggio
delle risorse ambientali e del territorio e nella marginalizzazione
delle classi popolari, in nome di un ‘modello di sviluppo’
che sta disseminando Antioquia di cattedrali nel deserto e che
alimenta la voracità dei ceti dominanti e il conflitto
sanguinario tra gli attori armati.
Dal
Guatemala, al Kurdistan, dalla Nigeria al Nepal, dal Lesotho
all’Argentina. La lunga storia di violazioni e scandali
targati Impregilo.
La
vicenda relativa alla realizzazione del ‘Tunnel d’Occidente’
in Colombia, purtroppo, non è l’unica in cui il
colosso delle costruzioni italiane del gruppo Fiat, è
direttamente responsabile di tragedie ambientali, dissesti del
territorio, violazioni dei diritti umani, di conflitti politico-sociali,
di deportazioni ed esodi di popolazione, di ingenti sprechi
di risorse finanziarie ed umane. Dall’America Latina, all’Africa,
all’Asia, l’Impregilo compare coinvolta in alcune
gravissime vicende, troppo spesso legate a fenomeni corruttivi
delle élite militari e politiche locali, e dove le infrastrutture
realizzate sono state perfino causa di massacri, stragi, sparizioni
forzate. Attualmente, nel caso del Kurdistan, una delle principali
opere in fase di realizzazione, è causa di una grave
crisi internazionale che può sfociare in un vero e proprio
conflitto armato. Vediamo di conoscere alcune di queste vicende
emblematiche dell’altra faccia della cooperazione italiana
nei paesi in via di sviluppo, quella intimamemnte legata alle
politiche neoliberali di morte e distruzione delle risorse del
pianeta.
Il
progetto idroelettrico di Chixoy e la repressione militare degli
indigeni del Guatemala
Tra
il 1976 e il 1982, l’allora Impresit-Cogefar partecipò
in consorzio con l’impresa tedesca ‘Lahmeyer Consulting
Engineers’ ai lavori di costruzione della diga di Chixoy,
nel dipartimento guatemalteco dell’Alta e Bassa Verapaz,
dove le comunità indigene Maya Achí avevano vissuto
per centinaia d’anni. Oggi, quella di Chixoy è una
delle centrali idroelettriche prese ad esempio a livello mondiale
per dimostrare come i grandi progetti finanziati dagli organismi
finanziari internazionali nel Sud del mondo abbiano generato
effetti disastrosi sulla natura e sulle comunità, creando
spirali debitorie che condannano i 4/5 della popolazione del
pianeta al sottosviluppo e alla miseria.
L’Impregilo
giunse in Guatemala in piena dittatura militare e la sua permanenza
nel paese coincise con la violenta guerra civile che ha fatto
più di 200 mila vittime tra il 1980 e il 1984. I finanziamenti
arrivarono dalla Banca Interamericana di Sviluppo (BID) e dalla
Banca Mondiale, che contribuirono, rispettivamente con 106 e
72 milioni di dollari. Altri 14 miliardi di lire giunsero dall’Italia
come ‘credito d’aiuto’ per la manutenzione della
galleria di El Jute, costruita, come tutta l’opera, dall’impresa
italiana. Così il governo italiano non fece mancare il
suo appoggio nonostante le sempre maggiori denunce sulle violazioni
dei diritti umani da parte della giunta militare guatemalteca
e nonostante il progetto fosse direttamente gestito da appartenenti
alle forze armate. “La diga di Chixoy – ha commentato
Jaroslava Colajacamo della Campagna per la Riforma della Banca
Mondiale - faceva parte della politica di controllo statunitense
sul mercato interno d’esportazione attraverso gli apparati
militari nazionali al laccio della Cia. Il direttore dell’Inde,
l’istituto nazionale guatemalteco per l’energia elettrica,
che gestì il processo di costruzione della diga, era
appunto un militare” ([20]).
L’avvio
dei lavori della diga ebbero un violentissimo impatto sulla
comunità indigena di Río Negro che viveva sulle
sponde del río Chixoy. Per inondare la valle dove oggi
esiste il bacino artificiale, le forze armate guatemalteche
costrinsero con la violenza oltre 4.000 persone a ‘reinsediarsi’
nel ‘villaggio modello’ di Pacux, vera e propria cittadella
militarizzata integrata nel sistema di urbanizzazione voluto
dalla giunta militare per controllare la guerriglia di sinistra.
La coraggiosa resistenza non violenta della popolazione locale
al programma di ‘desplazamiento’ fu pagata assai cara:
i militari instaurarono un clima di terrore e di intimidazione
e fu data mano libera ai paramilitari per compiere massacri
e sparizioni massive di uomini, donne e bambini. Tra il febbraio
e il settembre del 1982, prima del completamento dei lavori
da parte della Cogefar-Impresit, gli squadroni della morte uccisero
a Rìo Negro più di 400 persone; nell’area
di Rabinal, capoluogo della regione in cui fu realizzato il
bacino, vennero uccise invece circa 5 mila persone in meno di
due anni. Fu avviato altresì un piano di deforestazione
che aggravò la situazione ambientale della regione, già
colpita delle modificazioni climatiche generate dal bacino artificiale.
“Il generale Rios Montt – ha denunciato l’Ufficio
dei Diritti Umani dell’Arcivescovado di Guatemala - dette
l’ordine di tagliare gli alberi per una profondità
di 50 metri a entrambi i lati delle principali strade della
regione per impedire attacchi guerriglieri ai convogli militari”([21]).
L’impatto
sociale ed ambientale della centrale di Chixoy risulta altrettanto
drammatico a quasi vent’anni dalla sua realizzazione. Una
missione di verifica della Campagna per la riforma della Banca
Mondiale eseguita in Guatemala nel luglio del 1999 ha riscontrato
che la situazione a Pacux è perfino peggiore di quella
di partenza. “La terra da coltivare data come compensazione,
scarsa, coperta di pietre e senza irrigazione, si è rilevata
inadatta per i due terzi. La situazione era così drammatica
che per anni Inde fu costretto a distribuire il cibo per la
sopravvivenza. Le direttive della Banca Mondiale sul reinsediamento
forzato prevedono il ripristino degli standard di vita e delle
capacità di introiti delle persone, ma questo non avvenne
nel caso di Río Negro. Inde non riconobbe i diritti dei
sopravvissuti alla terra né delle nuove famiglie. Solo
dopo la privatizzazione dell’Inde, la società ha
concesso i titoli di proprietà sulle fatiscenti case
di Pacux”([22]). Di contro sono stati nulli i benefici
sull’economia nazionale apportati dalla diga: essa non
ha mai operato al di sopra del 70% della capacità prevista
e la sedimentazione attuale ha ridotto l’efficienza futura
del 50%. Alcuni tecnici giurano tuttavia che la centrale funzionerà
al massimo sino al 2002-2003.
“La
mancanza di valutazione d’impatto ambientale all’epoca
della costruzione” – si legge ancora nel rapporto
degli osservatori internazionali – “si riversa oggi
sull’ecosistema e sulle comunità che vi vivono.
L’area è completamente deforestata ed è cambiato
addirittura il ciclo delle precipitazioni annuali”. La
diga è risultata un disastro anche dal punto di vista
finanziario. Il costo finale del progetto non è ancora
chiaro: si parla da un minimo di 1,2 miliardi di dollari ad
un massimo di 2,5 miliardi e ciò ha comportato ad un’espansione
del debito estero contratto dal Guatemala. Si valuta che il
45% dell’intero debito del paese centroamericano sia stato
generato direttamente dalla costruzione della diga di Chixoy.
“Possiamo parlare di un vero e proprio ‘debito ecologico’
dell’Italia rispetto a questo paese” ha denunciato
efficacemente la Campagna per la riforma della Banca Mondiale.
All’espansione
dei costi della centrale idroelettrica realizzata dalla Cogefar-Impresit,
secondo un’indagine in corso, avrebbe contribuito un presunto
giro di tangenti (tra i 350 e i 500 milioni di dollari) versate
a favore di politici e militari guatemaltechi. Non è
un caso che la diga di Chixoy é stata definita la “più
grande miniera d’oro dei generali del Guatemala” ([23]).
Kainji,
Nigeria: una tragedia che dura da quaranta anni
Nigeria,
Niger State, ottobre 1998: una violenta inondazione distrugge
15 villaggi. La popolazione è duramente colpita: le abitazioni,
i campi, le povere infrastrutture che ne assicurano il sostentamento
vengono spazzate dalle acque dopo il crollo parziale della diga
di Kainji, una delle maggiori infrastrutture costruite in Nigeria
per lo sfruttamento dell’energia idroelettrica. Dal nome
di un’isola sul fiume Niger, la diga di Kainji sorge a
800 km a nord di Lagos. Alta 85 metri, ha modificato le acque
del Niger, generando un lago artificiale di 136 km di lunghezza
e 24 di larghezza, con una superficie di 1.270 Km2 e una capacità
di 15 miliardi di metri cubi d’acqua. I lavori furono realizzati
tra il 1964 e il 1968, in piena guerra per la secessione del
Biafra, da un consorzio di tre imprese italiane, Impresit, Girola
e Lodigiani, poi fusesi nell’Impregilo. I finanziamenti
giunsero dal governo nigeriano, dalla Banca Mondiale, dall’Olanda
e da Usaid, l’Agenzia di Aiuti allo Sviluppo degli Stati
Uniti.
Più
che a problemi strutturali, il cedimento della diga è
stato imputato all’assenza di manutenzione dell’infrastruttura
da parte dei tecnici nigeriani che ne curano la gestione. Secondo
i risultati delle prime indagini sulla catastrofe, l’impianto,
a oltre 30 anni dalla sua realizzazione, non aveva mai ricevuto
alcun lavoro di miglioramento. Gli altissimi costi finanziari
dell’opera e la decisione di avviare la costruzione di
un’altra imponente diga sul fiume Niger avrebbero lasciato
a secco le casse della società elettrica nigeriana, impedendo
l’acquisizione di attrezzature e la programmazione di attività
di mantenimento ed adegumento degli standard di sicurezza.
Il
rischio di cedimento strutturale era stato inutilmente segnalato
dalla popolazione residente in prossimitá della diga
di Kainji. Questa popolazione, oggi vittima dell’inondazione,
aveva già dovuto subire una prima riubicazione forzata
in occasione dell’inizio dei lavori. Le imprese italiane
realizzarono ad hoc un villaggio, New Bussa, dove furono deportati
circa 20.000 abitanti che vivevano nelle terre espropriate senza
indennizzazione. Il governo nigeriano s’impegnó
pubblicamente a mitigare i danni, assicurando la realizzazione
di strade di accesso alla regione e la fornitura di acqua ed
elettricità alle comunità. Alla data del crollo
della diga, nessuno di questi servizi era stato garantito alla
popolazione.
La
situazione socioeconomica della regione si è ulteriormente
aggravata con l’inondazione. Una missione della rete ambientalista
internazionale ‘Environmental Eights Action’ ha denunciato
la gravità delle condizioni di vita degli abitanti dei
villaggi distrutti: “essi hanno perso i mezzi che ne assicuravano
la sopravvivenza attraverso rudimentali attività di pesca;
i bambini e le donne sono costretti a marce estenuanti per rifornirsi
di acqua potabile; sono state completamente distrutte le estese
piantagioni di canna da zucchero in cui lavoravano numerosi
braccianti” ([24]).
Il
comportamento delle imprese italiane durante i lavori di realizzazione
della diga di Kainji assunse tutti gli aspetti delle conquiste
coloniali: saccheggio delle risorse, deportazioni delle popolazioni,
apartheid, sfruttamento intensivo della manodopera locale. Ingegneri,
tecnici e lavoratori specializzati furono fatti venire dall’Italia.
Per ospitare il personale espatriato e i numerosi familiari
(quasi un migliaio di persone), fu realizzato una cittadella
con oltre 400 abitazioni, uffici, un ospedale, una chiesa, una
scuola, una piscina, e alcuni campi da tennis. Un accampamento
con servizi minimi fu installato a debita distanza dalla cittadella
‘italiana’, con ampi dormitori per la mandopera ‘nera’,
in cui fu istituzionalizzato un postibolo.
Oltre
ai lavori di esecuzione della diga e della centrale idorelettrica,
la megacommessa vinta dalle società italiane prevedeva
altre opere dal forte impatto sul territorio e sull’ambiente:
la costruzione del canale di Awaru per rendere navigabile il
Niger da Timbuctù in Mali al Golfo di Guinea e un sistema
viario nella savana per collegare i cantieri di Kainji alla
rete stradale centrale e favorire l’arrivo degli automezzi
necessari alla realizzazione della diga.
L’immenso
cantiere fu investito direttamente dal violento conflitto scoppiato
in Nigeria tra i due maggiori gruppi etnici in occasione della
secessione della regione del Biafra. Una notte, nel luglio 1966,
l’etnia Houssa eseguì il massacro dei lavoratori
Ibo residenti nell’accampamento Impresit. “Gli occupanti
le case – scrive Leo Arrigoni che raccolse le testimonianze
di alcuni lavoratori italiani - aprirono le porte e vennero
colpiti da fendenti e machete e si abbatterono al suolo senza
un lamento ma, dall’interno delle case si levarono i gridi
e i pianti di donne e bambini, gridi che terminarono in rantoli
(..). Gli europei si telefonarono, qualcuno s’azzardò
ad uscire e vide corpi mutilati in una pozza di sangue luccicante
di luna. Corpi decapitati, gambe e braccia mozzate, corpi tagliati
a metà” ([25]).
Ignoto
fu il numero esatto dei morti di quel massacro, tuttavia le
imprese italiane furono costrette a utilizzare i bulldozer per
scavare le fosse comuni ove seppellire “centinaia”
di vittime. Numerosi cadaveri furono rinvenuti nei giorni seguenti
sulle sponde del fiume Niger. I lavoratori espatriati e i familiari
furono risparmiati dalla furia omicida degli assassini. Dopo
la ‘pulizia etnica’ degli Ibo dalla regione ritornò
la calma nel cantiere italiano e solo pochi lavoratori chiesero
di essere rimpatriati. Gli operai massacrati furono presto rimpiazzati
da personale dell’etnia responsabile della strage. “Si
dovettero assumere altri nigeriani, in sostituzione di quelli
uccisi o fuggiti, e obbligatoriamente essi furono Houssa”,
spiega ancora Arrigoni.
Un
anno più tardi da quella notte di furore e sangue, una
nuova tragedia colpì i lavoratori della diga. “Uno
dei due piloni della gru teleferica improvvisamente cadette
e soi inclinò, uno dei due cavi portanti si ruppe e falciò
come una frusta 17 uomini, tra cui un italiano”. Oltre
ai morti vi furono decine di feriti.
Le
centrali degli scandali: Nepal, Lesotho e Argentina
Si
chiama ‘Kaligandaki’ il megaprogetto idroelettrico
avviato nel 1997 da Impregilo in consorzio con un’impresa
austriaca ed una svizzera, nella regione orientale del Nepal,
grazie ad un finanziamento della ‘Asian Development Bank’.
Una infrastruttura che sin dalla sua progettazione è
stata al centro delle proteste delle organizzazioni sindacali
e sociali del paese che ne denunciano i “devastanti effetti
ambientali” e soprattutto le “irregolarità
del progetto”. Nello specifico alcuni ufficiali statali
sono stati accusati di gravi atti di corruzione: “con l’avvio
dei lavori di realizzazione della diga di Kaligandaki essi si
sono rapidamente arricchiti, divenendo proprietari di ville
con piscine e di alcune aziende”. “Nulla è
stato speso invece – prosegue la denuncia delle organizzazioni
in lotta - per creare misure di protezione ambientale, nonostante
sia stato provato che i progettisti non si sono attenuti agli
standard minimi richiesti dalle normative” ([26]). Da sottolineare
che il discutibile studio di fattibilitá del progetto
di Kaligandaki è stato realizzato proprio dalle due società
europee associatesi con Impregilo per l’esecuzione dei
lavori della diga.
All’Impregilo,
nello specifico, le organizzazioni sindacali imputano oltre
che la responsabilità nell’adozione di insufficienti
misure di sicurezza nel cantiere, il non riconoscimento dei
minimi salariali a favore della manodopera impiegata. Scioperi
e manifestazioni di protesta sono state organizzate per denunciare
le violazioni delle normative contrattuali e di sicurezza. “Intanto
sette persone sono morte negli ultimi tre anni durante i lavori
di costruzione della diga” ha denunciato Narayan Gurung,
leader del sindacato nazionale.
Se
le gravi denunce delle organizzazioni sociali nepalesi non sono
ancora approdate in sede processuale, diverso è quanto
accade nello stato africano del Lesotho, dove a partire dal
novembre 1999 é stata avviata un’inchiesta contro
otto società internazionali, tra cui l’Impregilo,
per presunte tangenti versate a favore di politici ed amministratori
locali. Secondo le autorità giudiziarie le società
avrebbero versato 1,8 milioni di dollari per ottenere i lavori
di costruzione di due dighe a Masupha Sole, nell’ambito
di un megaprogetto - denominato ‘Lesotho Highland Water’
- finalizzato al convogliamento delle acque del Lesotho in 5
dighe e il dirottamento di esse alla regione del Guatang, in
Sudafrica, dove sono presenti importanti centri industriali
e di agricoltura intensiva.
Anche
per questo progetto sono ingenti i danni socioambientali. Gli
esperti calcolano che oltre il 70% delle acque del fiume Orange
saranno deviate; per realizzare la prima delle dighe del ‘Lesotho
Higland Water Project’ oltre 24.000 persone, in buona parte
pastori nomadi, sono stati costretti ad abbandonare le valli
più fertili della regione e ad urbanizzarsi in quartieri
con baracche dai tetti di lamiera. “La popolazione non
ha avuto le compensazioni adeguate che erano state concordate
e soprattutto è stata definitivamente compromessa la
loro possibilità di vita tradizionale” scrive Liliana
Cori della Campagna per la Riforma della Banca Mondiale. “I
processi di consultazione sono stati estremamente superficiali,
hanno riguardato soltanto il governo del Lesotho e non le popolazioni
locali”. Inoltre il progetto fu concordato tra i due paesi
africani grazie ad un prestito di 150 miloni di dollari della
Banca Mondiale, “in modo da aggirare le sanzioni internazionali
esistenti al tempo contro il Sudafrica”, unico beneficiario
del programma ([27]).
Sono
state inoltre denunciate una serie di violazioni dei diritti
contrattatuali delle maestranze impiegate nella realizzazione
dei lavori. Le società internazionali hanno preferito
reclutare in Sudafrica il personale specializzato mentre la
manodopera locale è stata impiegata per i lavori di fatica
con salari inferiori ai minimi previsti dalla legge. Nel 1996,
le proteste sindacali sono state represse nel sangue: la polizia
ha sparato sui manifestanti causando 5 morti.
Per
ciò che riguarda l’inchiesta giudiziaria in atto,
Impregilo è sospettata del versamento illecito di circa
250.000 dollari nei conti dei funzionari africani aperti in
alcuni sportelli bancari di Svizzera e Francia. L’indagine
ha preso avvio dopo la scoperta di un giro di mazzette che sarebbero
state versate dalle imprese costruttrici per la realizzazione
di importanti dighe finanziate dalla Banca Mondiale in alcuni
paesi in via di sviluppo e di cui lo stesso organismo finanziario
internazionale ha dovuto ammettere gli illeciti e gli sprechi
finanziari. Nella lista delle opere attenzionate, oltre alle
dighe di Masupha Sole, le centrali idroelettriche di Chixoy
in Guatemala, di Tucurui in Brasile, di Itaipu al confine tra
Brasile e Paraguay e di Yacyretá tra Argentina e Paraguay
([28]).
Quasi
sempre le stesse le imprese coinvolte in questi inutili e devastanti
progetti della Banca Mondiale. Nel consorzio per la realizzazione
delle dighe di Masupha Sole, compaiono infatti con l’Impregilo,
la societá francese ‘Dumez’ e la tedesca ‘Lahmeyer
Consulting Engineers’, socie le tre nel consorzio che ha
realizzato la diga di Yacyretà, definita a livello internazionale
come “uno dei maggiori monumenti alla corruzione”.
Su questo progetto é stato aperto un procedimento per
illecito; i magistrati argentini vogliono scoprire come siano
potuti lievitare in modo sproporzionato i costi di realizzazione.
Inizialmente il progetto della Banca Mondiale prevedeva una
spesa di 2,7 miliardi di dollari; a conclusione dei lavori,
il costo ha raggiunto gli 11,5 miliardi di dollari ([29]). Come
già visto in precedenza, infine, la ‘Lahmeyer Consulting
Engineers’ e l’Impregilo compaiono consorziate per
la realizzazione della centrale idroelettrica di Chixoy.
Diga
di Ilisu, repressione dei Kurdi e conflitto medio-orientale
L’Impregilo
è tra le società internazionali contrattate dal
governo turco per la realizzazione nella regione orientale del
Kurdistan, del cosiddetto megaprogetto della ‘Grande Anatolia’,
in tutto 12 centrali idroelettriche e 22 dighe per incanalare
e deviare le acque dei mitici fiumi del Tigri e dell’Eufrate,
a soli 60 km dal confine con la Siria e l’Iraq. L’impresa
italiana partecipa in particolare ai lavori di costruzione della
diga di Ilisu, dove entrerà in funzione una centrale
per la produzione di 1,200 Mw e sorgerà un bacino di
313 Km2 con un volume di 10,4 miliardi di m3 d’acqua. Nella
fattispecie l’appalto è stato vinto da due imprese
svizzere che poi hanno preferito subappaltare i lavori ad un
consorzio internazionale, composto dall’Impregilo, da alcuni
gruppi inglesi, capofila la ‘Balfour Beatty’ e dalla
svedese ‘Skanska’, impresa nota in Colombia ove ha
realizzato la ‘represa di Urrà’, una devastante
centrale idroelettrica nella regione di Tierralta (Córdoba),
ove si susseguono i massacri e i ‘desplazamientos’
forzati della popolazione ‘mestiza’ ed indigena.
Una
campagna internazionale realizzata dalle maggiori organizzazioni
ambientaliste e di difesa dei diritti umani ha tuttavia permesso
la momentanea sospensione della diga di Ilisu in quanto ne sono
state provate il forte impatto territoriale e sociale e la valenza
politico-repressiva a danno della comunità Kurda oppressa
dal regime di Istambul.
Uno
studio indipendente ha infatti rivelato che la realizzazione
della diga di Ilisu comporterebbe per 78.000 persone l’abbandono
delle 15 cittadine e dei 52 villaggi dove attualmente risiedono.
Si tratta in buona parte di piccoli coltivatori e braccianti
Kurdi che perderebbero oltre alle abitazioni ogni opportunità
di sviluppo economico e di occupazione. Per essi, i progettisti
del governo turco non hanno previsto alcun programma di reinsediamento.
Un destino ancora peggiore di quello capitato ad oltre 100.000
persone della regione, che a seguito della realizzazione delle
grandi dighe di Atartuk e Karakaya sono state costrette ad abbandonare
decine di villaggi per popolare le baraccopoli di Diyarbakir
ed Istambul. Ad essi si aggiungono gli oltre 200.000 Kurdi che
a partire dal 1990, data di avvio del progetto ‘Grande
Anatolia’, sono stati prima espropriati della loro terra
e poi costretti all’emigrazione forzata o alla deportazione
verso le piantagioni dei latifondisti turchi, per lavorare in
condizioni di semischiavitù.
Oltre
allo sradicamento della popolazione, lo studio indipendente
sugli impatti socioambientali prefigura l’ulteriore riduzione
delle capacità idriche del Tigri e dell’Eufrate
(quest’ultimo con le opere di sbarramento si è già
ridotto del 50%) e il “drastico cambio climatico della
regione e di conseguenza la presumibile ricomparsa della malaria”;
la conseguente riduzione delle acque del Tigri, su cui vengono
scaricati i rifiuti solidi urbani e le acque nere di grandi
città kurde (Diyarbakir, Batman e Siirt), avrá
drammatiche conseguenze sulle capacità di autopurificazione
del fiume, e ciò lascia presagire lo scoppio di epidemie
e infermità gravi nei territori attraversati.
Le
organizzazioni ambientali hanno altresì denunciato che
i lavori per la diga di Ilisu causerebbero l’inondazione
di uno dei maggiori siti archeologici del Kurdistan, Hasankeyf,
risalente al periodo bizantino e medievale e dove sono ben conservati
monumenti, moschee e chiese di alto valore storico-artistico.
Hasankeyf sarebbe condannata così a sparire come un altro
importante centro archeologico, qullo di Zeugma, distrutto con
i lavori di un’altra diga del progetto ‘Grande Anatolia’.
Ció
che piú preoccupa del progetto sono tuttavia le sue rilevanti
caratteristiche politiche di discriminazione e marginalizzazione
della popolazione kurda e le prevedibili conseguenze militari
in un’area geostrategica al centro di conflitti e tensioni
di carattere interno ed internazionale. Con il megaprogetto
la Turchia si assicura il totale controllo delle acque della
Mesopotomia, privando l’accesso alle risorse idriche dei
due paesi confinanti, Siria ed Iraq, con cui la Turchia ha già
espresso la propria intenzione di non negoziare un accordo per
la gestione collettiva di questi due fiumi vitali. Di contro
l’acqua del Tigri e dell’Eufrate potrebbe essere deviata
verso Israele, paese con cui la Turchia ha avviato importanti
relazioni econonomiche, industriali e militari. Come denunciato
dalla ‘European Rivers Network’, la diga di Ilisu
è “un progetto politico motivato principalmente
da interessi strategici del governo turco per rafforzare la
propria posizione di potenza di fronte alla Siria e all’Iraq,
e per controllare l’area Kurda. La popolazione danneggiata
non è stata consultata, e a causa dello stato di guerra
non dichiarata nelle aree Kurde, essa non ha la possibilità
di difendere i propri interessi” ([30]). Tra gli analisti
internazionali, molti già prefigurano per il Medio Oriente
la possibilità di nuovi violenti conflitti per l’accaparramento
e la gestione delle sempre più scarse fonti idriche ivi
esistenti.
Per
le sue devastanti conseguenze socio-ambientali e per l’alto
rapporto costi-benefici della centrale idroelettrica (è
stato calcolato un valore di 1.300 dollari per Kw di energia
prodotta, quando un impianto è considerato remunerativo
se il costo non supera i 1.000 dollari per Kw), la stessa Banca
Mondiale ha preferito sospendere dal 1984 ogni finanziamento
del progetto della ‘Grande Anatolia’. Per le preoccupazioni
di ordine politico-militare il governo britannico laburista
ha recentemente sospeso la propria contribuzione per 600 miliardi
di lire e di conseguenza le società inglesi coinvolte
nel programma hanno deciso di abbandonare i cantieri in Kurdistan.
Attualmente al progetto di Ilisu é stato garantito un
contributo finanziario internazionale per 850 miloni di dollari,
piú un credito da parte della UBS (Union Bank of Switzerland).
Purtroppo tra i paesi che hanno assicurato la propria quota
finanziaria compare l’Italia, evidentemente più
attenta a favorire gli investimenti in Turchia dell’Impregilo
che a interpretare un ruolo di mediazione e di pace nello scacchiere
mediorientale. In opposizione alla partecipazione italiana al
progetto ‘Grande Anatolia’ è stata avviata
dall’associazione ‘Un ponte per Diyarbakir’ e
dalla ‘Campagna per la Riforma della Banca Mondiale’
un’iniziativa nazionale di sensibilizzazione. In particolare
è stata invitata la Sace (l’Agenzia di Credito all’Esportazione)
a ritirare ogni finanziamento a favore dei lavori di realizzazione
del complesso idroelettrico.
L’Impregilo
nel mondo.
Gli
affari del gigante delle costruzioni in mano al gruppo finanziario
che comanda alla Fiat.
Grazie
ad una strategia di mercato che l’ha vista impegnata nella
fusione-assorbimento di alcune delle più importanti imprese
del settore (la società nasce appunto dalla fusione tra
la Cogefar, la Girola e la Lodigiani) e all’espansione
delle commesse degli ultimi anni, l’Impregilo è
oggi una delle maggiori imprese di costruzioni a livello internazionale.
Il suo capitale sociale è valutato intorno ai 93 milioni
di euro ed è principalmente in mano alla centrale dell’economia
italiana che monopolizza il mercato automobilistico. Secondo
le cifre dell’ultimo bilancio Impregilo, il gruppo ‘Gemina
S.p.a’. detiene il 15,63% delle azioni della società
di costruzioni; il resto del pacchetto è in mano al ‘Gruppo
Fiat-Sicind S.p.a.’ (4,70%), alla ‘Girola Partecipazioni
S.p.a.’ (2,77%) e a cinque importanti istituti bancari
nazionali, la ‘Banca di Roma’, la ‘Banca Commerciale
Italiana’, il ‘Credito Italiano’, ‘Cariplo’
e il ‘Gruppo Bancario San Paolo’ (congiuntamente il
14%). Il resto del capitale, per un valore del 62%, é
in mano al mercato azionario.
Il
Consiglio di aministrazione in carica vede come presidente Paolo
Savona, giá direttore della ‘Banca Nazionale del
Lavoro’, vicepresidente Giuseppe Gatto ed amministratore
delegato, l’ingegnere Pier Giorgio Romiti, uomo di fiducia
della famiglia Agnelli.
Nel
1999 il valore della produzione Impregilo é ammontata
a 2.049 milioni di Euro, con un risultato operativo di 71 milioni
di euro ed un utile netto di 19,8 milioni di euro. I dati consolidati
del bilancio per l’anno 2000 hanno visto un portafoglio
ordini per 13.910 miloni di euro e nuove commesse per 4.256
milioni di euro (1.203 per attività di costruzioni e
3.053 a titolo di concessioni e servizi). Solo il 36% del portafoglio
lavori riguarda infrastrutture e commesse realizzate in Italia;
un altro 5% dei lavori si realizza in Europa e il restante 59%
interessa paesi in ‘via di sviluppo’ nel resto del
mondo.
Una
lettura più attenta della relazione di bilancio evidenzia
tuttavia l’esistenza di zone d’ombra nella redditività
di alcune nuove realizzazioni Impregilo in giro per il mondo.
Il Consiglio di Amministrazione ha infatti dovuto segnalare
a fine 2000 l’esistenza di un “contenzioso non ancora
risolto per i lavori effettuati nella diga di Yacyretá
in Argentina per 73 miloni di euro”. Come abbiamo visto
in precedenza, Yacyretá é una delle dighe attenzionate
dalla Banca Mondiale e dai magistrati argentini per presunti
illeciti in corso d’opera. Nel primo trimestre del 2000,
poi, Impregilo aveva accumulato un risultato negativo per 17,9
milioni di euro, principalmente a causa di “criticità
emerse nell’esecuzione dei contratti in Pakistan per l’impianto
idroelettrico di Ghazi Barotha, in Arabia Saudita per gli ospedali
King, Abdul, Aziz Hospital Project e negli Emirati Arabi per
la moschea Sheik Sultan Bin II in Abu Dabhi” ([31]). Le
‘criticitá’ in questi paesi islamici, e l’’imprevisto’
argentino ha avuto riflessi diretti sulla ridefinizione delle
strategie finanziarie di Impregilo che ha avviato un pesante
processo di ‘ristrutturazione interno’ con il taglio
di 450 unitá lavorative presso la sede centrale e le
principali strutture periferiche dell’impresa. Cosí,
nonostante l’espansione del fatturato e del portafoglio
ordini dell’ultimo triennio, una parte dei dipendenti di
Impregilo è stata espulsa dal mercato del lavoro.
Cinquanta
anni di affari
Attualmente
Impregilo conta su 70 succursali sparse in tutto il mondo ed
è impegnata in circa 700 tra società controllate,
associate e consorzi. Le aree di intervento del colosso vanno
dalla realizzazione di dighe e infrastrutture idroelettriche,
alla costruzione di strade e autostrade, di linee ferroviarie
e metropolitane, di porti e altre opere marittime, di opere
idrauliche e impianti di irrigazione, di aeroporti e tunnel
sotterranei, di opere civili per centrali termonucleari, di
interventi di edilizia residenziale, sportiva, industriale,
ospedaliera. Negli ultimi 50 anni, la società ha contribuito
alla realizzazione di alcune delle più importanti megainfrastrutture
al mondo, spesso in paesi in guerra o sottoposti a dittutatura
militare e alla violazione sistematica dei diritti umani.
Tra
le opere più ‘significative’ firmate da Impregilo
compaiono le devastanti dighe di Kariba, Bakalori, Kainji e
Jibiya in Nigeria, Tarbela in Pakistan, Dez in Iran, Yacyretà
in Argentina, Ertan e Xiaolangdi in Cina, Mae Kuang in Tainlandia
e Mujib in Giordania; le opere portuali, talvolta di interesse
strategico-militare di Porto e Lisbona in Portogallo, Homs in
Libia, Mohamedia in Marocco, Beira in Mozambico, Mogadiscio
in Somalia, Porto Torres, Brindisi e Venezia in Italia; le opere
ferroviarie in Italia (in particolare le tratte per l’alta
velocità del centro-nord), in Francia, Venezuela, Algeria,
Camerun e Gabon; le metropolitane di Milano, Roma, Napoli, Genova,
New York, Vienna, Parigi, Caracas e Singapore; le infrastrutture
aeroportuali di Fiumicino e Capodichino in Italia, dell’Isola
di Sant’Elena e di Nairobi in Africa; buona parte della
rete autostradale nazionale e delle autostrade di Turchia, Argentina,
Canada e Cina; alcuni megaponti come quello del Bosforo o di
Lagos; alberghi, centri commerciali ed ospedalieri negli Emirati
Arabi Uniti, in Arabia Saudita, in Grecia, nella Repubblica
Ceca ed ovviamente in Italia, dove è da segnalare la
realizzazione dell’Istituto Europeo di Oncologia diretto
dall’ex ministro della Sanità, prof. Veronesi.
Negli
ultimi tre anni, in particolare, l’Impregilo è riuscita
ad accaparrarsi alcune delle maggiori commesse internazionali.
Per
ciò che riguarda il 1998, la società, insieme
alla ‘Dioguardi’, si è aggiudicata con trattativa
privata, i lavori per la realizzazione del ‘Parcheggio
sotterraneo del Gianicolo’, nell’ambito dei programmi
urbanistici previsti per il ‘Giubileo 2000’. L’opera
è stata fortemente osteggiata dall’organizzazione
ambientalista ‘Italia Nostra’ che ha inutilmente denunciato
il grave danno al patrimonio paesaggistico ed archeologico di
Roma e la violazione della normativa europea sulla concessione
degli appalti. Sempre in Italia, Impregilo ha vinto le commesse
per la costruzione del ‘Canale idraulico di Valviola’
in Valtellina e del ‘Centro Medico’ di Gricignano.
Forte la presenza sullo scenario europeo dove la società
di costruzioni ha ottenuto i lavori per la realizzazione della
‘Metropolitana’ di Porto (Portogallo), della ‘Concert
Hall’ di Atene, del ‘Tunnel stradale’ di Gorgier
(Svizzera) e del ‘Parcheggio multipiano’ di Dundee
(Inghilterra). Sempre in Inghilterra la società ha avviato
i lavori per la realizzazione del parcheggio sotterraneo dell’’Ospedale
Universitario’ di Cardiff. All’Impregilo sono stati
assegnati anche i lavori di ristrutturazione del ‘Porto
di Costanza’ (Romania) e della ‘Metropolitana’
di San Pietroburgo (Russia). La società ha poi avviato
una campagna di penetrazione nell’area dei Balcani, in
particolare in Serbia e Croazia, in vista della ricostruzione
del territorio colpito dalla guerra nell’ex Yugolsavia.
Sempre
nel 1998, la società ha ottenuto in Africa ordini per
213 miliardi di lire, in buona parte finalizzati alla realizzazione
della ‘Diga di Mohale’ (Lesotho), del ‘Canale
di irrigazione agricolo Chouchi’, dell’’Impianto
idraulico di Cross River State’, della ‘Strada Ebocha-Ndoni’,
tutti in Nigeria. In Asia, l’Impregilo ha rafforzato la
propria posizione nella realizzazione di una complessa rete
di centrali idroelettriche in Cina; inoltre ha avviato i lavori
di realizzzione del ‘Centro commerciale’ di Riyadh
(Arabia Saudita). Notevole la penetrazione sul mercato sudamericano,
dove Impregilo ha realizzato le ‘Carceri di Ezeiza’
(Argentina), la ‘Galleria stradale’ di Hatillo (Colombia),
l’’Impianto idroelettrico’ di Ponte de Pedra
(Brasile). Sempre in Brasile, l’Impregilo ha avviato la
costruzione dell’‘Autostrada Anchieta Imigrantes’
che congiungerà la città di San Paolo al porto
di Santos e che rappresenterà il primo tronco dell’arteria
autostradale internazionale San Paolo-Buenos Aires, una megaopera
per 2.651 miliardi di lire che attraverserà Brasile,
Uruguay ed Argentina ([32]).
Il
1999 è stato segnato principalmente dall’acquisizione
in Italia di buona parte dei lavori per le contrastate opere
dell’Alta Velocità, con il 35% degli appalti della
tratta Milano-Torino, il 71% della Milano-Genova e il 76% della
Bologna-Firenze. Impregilo è stata inoltre ammessa unitamente
ad altre imprese nella ‘short list’ per partecipare
al progetto ‘Grandi Stazioni’ per la riqualificazione
delle maggiori stazioni ferroviarie. Sempre in Italia, tra le
commesse del 1999 compaiono i lavori per il ‘Casinò
di Campione’, per il ‘Nuovo Centro Fiera di Rimini’,
per l’’Autostrada Monte Bianco’ (tratta Courmayeur-Morgex),
per il ‘Centro Riabilitazione Psichiatrica’ a Cernusco
sul Naviglio, per l’Ospedale San Salvatore’ (L’Aquila)
e per l’’Hyatt Hotel’ di Milano. Da parte dell’amministrazione
militare statunitense, Impregilo ha ottenuto i lavori per la
realizzazione di un villaggio residenziale per gli addetti della
base aeronavale di Sigonella, in Sicilia, dove proprio la società
di costruzioni aveva perso qualche anno addietro un importante
contratto per l’ampliamento dell’infrastruttura. L’appalto
fu assegnato alla ‘C.M.C. di Ravenna’, società
presente nel consorzio italo-colombiano ‘Porce II, che
pure aveva presentato un’offerta maggiore di un miliardo
di lire a quella dell’Impregilo. Un’inchiesta della
magistratura ha poi rilevato la presenza di imprese della mafia
catanese nei cantieri di ampliamento della base di Sigonella.
Sempre
in Sicilia, l’Impregilo in associazione temporale con la
‘Hera’ e la ‘Tecnoedile’ ha avviato la realizzazione
della ‘Nuova Pretura di Palermo’, definita dal sindaco
Leoluca Orlando “il più grande edificio pubblico
mai costruito in città”. Analoga soddisfazione è
stata espressa nel capoluogo siciliano da altri amministratori
per le ‘professionalità’ della società
costruttrice. In pochi però hanno ricordato la discutibile
presenza dell’Impregilo in uno dei consorzi indagati dalla
Procura antimafia di Palermo, attivo nel settore dello smaltimento
dei rifiuti. Secondo quanto rivelato dalla Commissione Parlamenatre
d’inchiesta sulla cosiddetta ‘Ecomafia’, presieduta
dall’on. Massimo Scalia, il nome dell’importante società
costruttrice compare nella cosiddetta ‘Operazione Trash’,
che ruota attorno ai forti legami tra la ‘De Bartolomeis’,
società leader nel Mezzogiorno nello smaltimento dei
rifiuti e nella realizzazione di discariche e impianti di riciclaggio,
e alcuni boss mafiosi di Cosa Nostra, tra cui Bernardo Provenzano,
Giovanni Brusca, Angelo Siino e Vincenzo Virga. Tra i personaggi
centrali dell’indagine Romano Tronci, ‘consulente’
della ‘Termomeccanica’ (società acquisita dall’ex
manager Fiat Enzo Papi), imprenditore-cerniera tra gli ambienti
finanziari, politici, massonici e criminali siciliani e non.
“Qual
è il ruolo dell'Impregilo nella vostra indagine?”
chiede l’on. Scalia al dottor Biagio Insacco, procuratore
della Direzione distrettuale antimafia di Palermo in occasione
dell’audizione del 22 luglio 1998 della Commissione parlamentare
d’inchiesta. “E' un ruolo minore” risponde il
procuratore. “Purtroppo si verifica spesso che imprese
di rilevanza nazionale mettano solo il loro nome e i lavori
vengano realizzati da imprese locali; il caso è un esempio
classico di questo modus operandi. Si tratta di un'impresa,
che, tramite suoi dirigenti, si è prestata ad intrattenere
rapporti con imprese locali facenti parte di questo raggruppamento
la cui riconducibilità alla famiglia di Boccadifalco
appare evidente anche sulla base di rapporti parentali. Dalle
indagini, è emerso che alcuni dirigenti che hanno operato
in Sicilia hanno intrattenuto rapporti diretti con Angelo Siino
e Antonino Buscemi, i due soggetti che nel settore degli appalti
pubblici palermitani per aspetti diversi hanno avuto un ruolo
importante, se non altro perché, essendo soprattutto
a Buscemi Antonino riconducibili società nel settore
del calcestruzzo e degli inerti ed essendo indispensabili per
questo tipo di attività i rapporti fra società
operanti nel settore degli appalti e società operanti
nel settore delle forniture”.
“Non
si può quindi parlare una presunzione di innocenza, nel
senso comune e non giudiziario del termine” commenta tuttavia
laconico l’on. Massimo Scalia. “Le dichiarazioni dei
collaboratori sono state riscontrate per quanto riguarda i collegamenti
ed i rapporti societari” – aggiunge il Procuratore
Biagio Insacco. “Oltre ai rapporti attuali tra alcuni soggetti
che hanno operato per conto dell'Impregilo e il Buscemi, ve
ne sono di precedenti riguardanti l'ex gruppo Ferruzzi (si tratta
di soggetti che hanno transitato da un gruppo all'altro). O
questi soggetti hanno vissuto senza rendersi conto dello spessore
mafioso di coloro con i quali per molti anni hanno avuto a che
fare - e questa è la loro tesi -oppure no….”
([33]).
Aeroporti
e ferrovie il business del 2000
Qualche
incidente di percorso l’Impregilo lo ha avuto anche nel
nord-est d’Italia. Sempre nel 1999, la società è
stata esclusa infatti dal Consiglio di Stato dai lavori per
la ristrutturazione del teatro ‘La Fenice’ di Venezia.
L’organo amministrativo ha fatto suo il ricorso del conzorzio
italo-tedesco ‘Romagnoli-Holzman’ che avevano denunciato
come all’Impregilo fosse stato attribuito l’appalto
nonostante le difformità dal bando di concorso e una
serie di errori ed omissioni nella presentazione dei documenti.
Sicuramente
migliore il panorama finanziario in Sud America. Nello stesso
anno l’Impregilo si è aggiudicata infatti i lavori
di ‘Risanamento del Río Reconquista’ in Argentina
e di costruzione dell’’Autostrada Oriente-Ponente’
in Cile. Nella Repubblica Dominicana la società ha ottenuto
un progetto di bonifica e ristruttuazione dell’acquedotto
di Santo Domingo e i lavori di ampliamento dei 4 maggiori aeroporti
del paese. Impregilo, in consorzio con la statunitense ‘Ogden
Corporation’s Aviation’, la canadese ‘Vancouver
Airport Services’ e la ‘Operadora de Aeropuertos del
Caribe’ - società di uomini d’affari e costruttori
domenicani – ha inoltre ottenuto la concessione per la
gestione ventennale delle infrastrutture aeroportuali della
Repubblica Dominicana ([34]).
Maggiore
il portafogli lavori dell’anno 2000. In febbraio le Ferrovie
dello Stato italiane hanno ratificato l’accordo tra la
‘TAV S.p.a.’, società concessionaria, la ‘General
Contractor Fiat’ e il ‘Consorzio Cavet’ (di cui
Impregilo è leader con una quota del 76%) per la costruzione
della ‘Variante Firenze-Castello’ per un importo di
2.000 miliardi di lire. Con questa nuova tranche, i lavori per
la devastante tratta dell’Alta Velocitá della Firenze-Bologna
(94 km di perforazioni e gallerie nell’Appennino), raggiungono
i 6.100 miliardi di lire, di cui 4.640 in quota commesse all’Impregilo.
Nel
giugno 2000 è stata presentata inoltre la ‘Leonardo
S.p.a.’, il consorzio tra Impregilo, ‘Italpetroli’,
‘Falck’, ‘Gemina S.p.a.’ e ‘Medowale
Ltd.’, che ha acquisito dall’Iri il 51,2% del capitale
degli ‘Aeroporti di Roma’, la societá che gestisce
gli scali capitolini di Fiumicino e Ciampino in via di privatizzazione.
L’operazione finanziaria, stimata intorno ai 2.570 miliardi
é finalizzata alla realizzazione di un piano di sviluppo
infrastrutturale con investimenti per circa 1.000 miliardi.
La ‘Leonardo S.p.a.’ prevede infatti di aumentare
la capacitá di ricezione di Fiumicino (rifacimento e
allungamento delle piste, ammodernamento e realizzazione di
moli, ecc.), per passare dall’odierno traffico di 25 milioni
di passeggeri all’anno, ai 35 milioni entro 5 anni.
Sempre
nel territorio italiano, l’Impregilo, attraverso la controllata
‘Mazzi’ di Verona ha ottenuto la commessa per la ricostruzione
del ‘Teatro Verdi’ di Pordenone (39 miliardi di lire);
inoltre ha avviato i lavori di costruzione del nuovo ‘Auditorium’
di Roma (63 milioni di euro), e di ampliamento dei locali della
‘Facoltà d’Ingegneria’ e del ‘Policlinico’
dell’Università di Messina. Quest’ultimo appalto
verrá gestito dalla controllata ‘Bocoge’ ed
avrá un valore di 73,8 milioni di euro. Sempre nella
città siciliana, l’Impregilo non nasconde i suoi
interessi a partecipare alla realizzazione e alla gestione di
una delle più devastanti opere infrastrutturali preannunciate
da tutti i governi succedutesi nella storia della Repubblica:
il ‘Ponte sullo Stretto’, oltre 15.000 miliardi di
lire d’investimenti.
Attraverso
un’altra societá controllata, la ‘Fisia’,
Impregilo si é affermata nel settore delle tecnologie
ambientali e nei redditizi mercati dello smaltimento dei rifiuti
solidi urbani. Alla ‘Fisia’ é stato assegnato
un megaprogetto per la raccolta e lo smaltimento dei rifiuti
delle province di Avellino, Benevento, Caserta e Salerno, per
un valore di 233 milioni di euro. La Presidenza della Regione
Campania ha inoltre sottoscritto con un consorzio internazionale
capitanato da ‘Fisia’ un contratto decennale di 800
miliardi di lire per il servizio di smaltimento dei rifiuti
nella provincia di Napoli. Il programma prevede la chiusura
delle discariche, la lavorazione dei rifiuti con produzione
di combustibile derivato ed energia elettrica, e il “riutilizzo
della frazione organica inertizzata per il risanamento di cave
dismesse”. Il progetto tuttavia ha destato forti perplessità
tra le organizzazioni ambientaliste e vivaci proteste tra gli
abitanti di Acerra, comune dove sorgerà l’inceneritore
per i rifiuti.
Ulteriori
polemiche ha destato la presentazione di un megaprogetto urbanistico
nella città di Sorrento, dove Impregilo prevede di ampliare
il porto commerciale, completare il porticciolo turistico, modificare
l’assetto di vie e piazze del centro storico, installare
una serie di ascensori di interconnessione e costruire tre grandi
parcheggi per oltre un migliaio di auto. “Questo piano
viola la normativa di impatto ambientale e di tutela paesaggistica”
hanno denunciato le organizzazioni ambientaliste campane. “La
Giunta municipale lo ha approvato senza acquisire i pareri della
Soprintendenza Archeologica e dei Beni Ambientali ed Architettonici.
Manca altresí una perizia geologica a fronte di un rilevante
deturpamento del paesaggio e dello stato dei luoghi”. Costo
totale dell’operazione 42 miliardi e 850 milioni di lire.
Con la convenzione firmata con il municipio di Sorrento, Impregilo
ottiene infine la gestione per 25 anni del porto e dei parcheggi.
In
ambito europeo Impregilo é stata operativa particolarmente
nel settore transalpino. Grazie ad un consorzio italo-francese,
la societá ha infatti acquisito un contratto per 24,3
miloni di euro per la riabilitazione e l'ammodernamento del
lato francese del traforo del Monte Bianco; attraverso la controllata
‘CSC’ di Lugano, l’Impregilo ha acquisito il
15% della quota contrattuale per la realizzazione del ‘Tunnel
di Uetilberg’, Svizzera, nell’ambito del progetto
ferroviario ‘Alptransit’, anch’esso dal notevole
impatto ambientale.
Impregilo
si é confermata una societá leader nei paesi del
Golfo Persico, dove ha ottenuto lavori per 390 milioni di euro.
In consorzio con ‘Enalpower’ del ‘Gruppo Enel’,
sono stati avviati i lavori per la realizzazione di una centrale
elettrica da 850 Mw e di un impianto di dissalazione a Jebel
Ali negli Emirati Arabi Uniti. Altri due impianti di dissalazione
sono stati avviati dalla ‘Fisia’ a Al Hidd (Bahrein)
e Mirfa (Abu Dhabi), sempre negli Emirati Arabi Uniti. Infine
la società si è assicurata la commessa per la
realizzazione di 4 dissalatori in Qatar, valore 400 miliardi
di lire.
Sempre
ingenti gli affari nel continente americano dove Impregilo in
consorzio con ‘Acea’, la societá degli acquedotti
romani e la ‘Castalia’, ha ottenuto nel gennaio 2000
la concessione della rete idrica di Lima, piú un contratto
per la gestione e il mantenimento per 25 anni dell’impianto
di trattamento e potabilizzazione delle acque del Río
Chillón, nella zona nord della capitale peruviana. Valore
complessivo delle commesse, 330 milioni di dollari. Sempre nel
settore idrico, Impregilo ha acquisito la concessione di un
acquedotto nella provincia di Buenos Aires al servizio di 2
milioni e mezzo di abitanti. In joint venture con la ‘Gilbert
Southern Corp.’, la controllata nordamericana dell’Impregilo
‘S.A. Healy Company’ ha ottenuto un contratto per
113 milioni di dollari per la costruzione di un ‘Tunnel
sotterraneo idraulico’ nell’ambito del sistema di
raccolta e smaltimento delle acque reflue di Chattahoochee,
nella contea di Cobb, a nord-ovest della città di Atlanta
(Stati Uniti). Il tunnel insieme alla contemporanea commessa
per la realizzazione del ‘Laboratorio Fermi’ ha segnato
il ritorno di Impregilo sul mercato nordamericano dopo alcuni
anni di assenza.
------------------------------------------------
[1]
O. Ordoñez Carmona, “Diagnostico Geológico-Geotécnico
de los procesos asociados a la inestabilidad de las laderas
en la zona de Mestizal”, Medellín, Noviembre de
2000, pag.1.
[2]
O. Ordoñez Carmona, “Reconocimiento patológico
de algunas de las propiedades afectadas por la instabilidad
de las laderas en la zona de Mestizal”, Medellín,
Diciembre de 2000, pag. 13.
[3]
O. Ordoñez Carmona, “Reconocimiento patológico
de algunas de las propiedades afectadas por la actividad asociada
a la construcción del proyecto de interconexión
vial Aburrá-Cauca, en la zona de Piedra Negra y Llanos
de San Juan”, Medellín, Diciembre 2000, pag. 5.
[4]
Gerencia Proyecto Aburrá-Río Cauca, “Avance
Físico y Financiero”, Medellín, Febrero del
2001, pagg. 6-7.
[5]
Autoritá municipale che difende gli interessi legittimi
della popolazione di fronte i possibili abusi dello Stato.
[6]
Instituto Nacional de Vías, “Conexión vial
entre los valles de Aburrá y del Río Cauca”,
Informe Ejecutivo, Medellín, Junio de 1996.
[7]
Ibidem.
[8]
Gerencia Proyecto Aburrá-Río Cauca, “Avance
Físico y Financiero”, cit., pag. 8.
[9]
‘El Colombiano’, 4 novembre 2000.
[10]
‘El Colombiano’, 3 marzo 2001.
[11]
‘El Colombiano’, 20 aprile 2001.
[12]
‘El Colombiano’, 28 aprile 2001.
[13]
‘El Colombiano’, 10 maggio 2001.
[14]
Asamblea Permante por la Paz de Antioquia, “Algunas consideraciones
sobre la violencia urbana en la ciudad de Medellín”,
Documento preparatorio de la III Plenaria Regional, Medellín,
26 de mayo de 2001, pagg. 20-1.
[15]
Corporación Región, “Estado de los derechos
económicos, sociales y culturales en Medellín”,
Medellín, dicembre 2000.
[16]
Planeación y Desarrollo, “La competitividad de Antioquia,
el gran reto de hoy”, Informe Especial, Cámara de
Comercio de Medellín, No. 21, Agosto-septiembre de 2000,
pagg. 8-9.
[17]
IPC, “Antioquia: fin de milenio: terminará la crisis
del derecho humanitario?”, Medellín, 1999, pag.
33.
[18]
A.I. Rivera, “El viejo sueno Pescadero-Ituango, una realidad”
en ‘Cámara de Comercio de Medellín’,
agosto de 2000, pag. 13.
[19]
‘El Colombiano’, 10 maggio 2001.
[20]
J. Colajacamo, “Dal debito al credito: Guatemala la diga
di Chihoy”, in AA.VV., ‘Debito da Morire’, Baldini
& Castoldi, Milano, 2000, pag. 196.
[21]
Ufficio dei Diritti Umani dell’Arcivescovado di Guatemala,
‘Guatemala Nunca Mas’, La Piccola Editrice, Montefiascone,
1998, pag. 243.
[22]
Reform the World Bank Campaign Italy, ‘The Chixoy dam in
Guatemala: the genocide of the Naya Achí’, Rome,
2000.
[23]
Witness for Peace, “A People Dammed: The Impact of The
World Bank Chixoy Hydroelectric Project in Guatemala”,
New York, 1995.
[24]
Environmental Eights Action, “The Kainji Dan Flood”,
Era Field Report, No. 19, January 11, 1999.
[25]
Leo Arrigoni, “Castori. Il romanzo degli italiani che hanno
cambiato la faccia della terra”, in http://www.leoarrigoni.com/castorib.html.
[26]
‘The Kathmandu Post’, January 17, 2000.
[27]
Liliana Cori, “Banca Mondiale, grandi progetti e ambiente”,
Campagna per la Riforma della Banca Mondiale, Roma, 1999, in
http://www.utopieconcrete.it/dirittiumaniest.html.
[28]
International Rivers Network, “Bribes by Major International
Dam-building Companies Taint World Bank-Funded Lesotho Water
Project”, Press Release, August 2, 1999.
[29]
World Bank, “Annual Meeting News”, October 13, 1991.
[30]
European Rivers Network, “The Ilisu Dam Project”,
River Net, novembre 1998.
[31]
Impregilo, “Approvata la relazione trimestrale al 31/3/2000”,
Comunicato Stampa, http://www.impregilo.it/news/documenti/com105_it.htm.
[32]
Latin America’s Foremost Buisiness Information Source,
“Headline News”, July 23, 1996.
[33]
Commissione Parlamentare d’Inchiesta sul ciclo dei rifiuti
e sulle attività illecite ad esso connesse, Camera dei
Deputati-Senato della Repubblica, Seduta di mercoledì
22 luglio 1998.
[34]
Airwise News, 19 marzo 1999.
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